Viaggio nelle culture ispano-parlanti, tra identità e idee | Monica Bedana

Chi è Monica Bedana

Monica Bedana

Ispanista e traduttrice letteraria. Si è specializzata nella didattica della linguacultura spagnola all'Università di Salamanca, dove per oltre vent'anni è stata mediatrice culturale ai Corsi Internazionali. Dal 2017 dirige la scuola ufficiale dell'Università di Salamanca a Torino, dedicandosi alla formazione di insegnanti di spagnolo come lingua ulteriore e di traduttori letterari. In Italia traduce letteratura per le case editrici Bompiani, Einaudi e Lindau, e il giornalismo internazionale per il quotidiano La Repubblica. Dal 2021 è responsabile di didattica del Programma di Sviluppo Professionale per docenti italofoni di spagnolo delle scuole secondarie di ogni ordine e grado, nato dalla collaborazione tra l’Università di Salamanca e la casa editrice Zanichelli.

“Ñamerica”

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Namerica

“Il nuovo illuminismo radicale”

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Il nuovo illuminismo radicale

“Papyrus. L’infinito in un giunco”

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Papyrus

“Colpi alla cieca”

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Colpi alla cieca

“Un imperio de ingenieros”

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Un imperio de ingenieros

Prof. Juan Carlos De Martin (JCD)
Benvenuti a questa puntata di Cinque Libri. Io sono Juan Carlos De Martin, Delegato del Rettore per la Cultura e la Comunicazione, e ho il grande piacere, oggi, di dare il benvenuto e di assistere la nostra ospite: la Professoressa Monica Bedana, che è la Direttrice dell'Università di Salamanca qui a Torino, nonché filologa, qui con noi per aiutarci a cercare di comprendere una parte molto importante del mondo contemporaneo, il mondo ispanico e latinoamericano.
Come sempre in queste puntate di Cinque Libri abbiamo chiesto alla professoressa Bedana di provare a suggerirci, a raccomandarci cinque libri che ci aiutino ad avvicinarci a questo tema che tutti sentiamo come importante, ma che non tutti ovviamente conoscono in maniera approfondita. Durante questa puntata, quindi, converseremo con lei, e sarà innanzitutto lei, ovviamente, a parlarci, raccontandoci perché ha selezionato questi cinque libri che, come vedremo, sono abbastanza eterogenei, diversi tra loro, e quindi in grado di illuminare aspetti diversi di questa importantissima cultura. Quindi, benvenuta al Politecnico.

Prof.ssa Monica Bedana (MB)
Grazie, professor De Martin.

JCD
Aggiungo che il mio nome è Juan Carlos, un nome chiaramente di origine spagnola, dal momento che sono nato in Argentina, pur essendo, ahimè, un finto argentino. Mi presto a questa conversazione con grandissimo piacere, ma in realtà con grande ignoranza, perché i ricordi della mia infanzia argentina sono ormai molto appannati. Quindi, benvenuta. Da quale libro vogliamo cominciare?

MB
Cominciamo dal libro di Martín Caparrós, Ñamerica”, che ha in comune con lei l'origine dell'autore, figlio di emigrati spagnoli durante la guerra civile: spagnolo da parte di madre e successivamente emigrato il padre dell’autore, argentina invece la madre, anche se di discendenza di paesi dell'Est Europa. Dunque, il campo che stiamo cercando di definire è un campo vastissimo, la cui definizione sfugge veramente a tutti: che cosa siano e quale sia la lingua che parlano tutti questi paesi. Il saggio è davvero monumentale sotto tutti i punti di vista, nel senso che ha racchiuso davvero tanti sguardi, dalla statistica all'esperienza sul campo, all'esperienza narrativa e giornalistica. È scritto, questo libro, da una persona che fondamentalmente si definisce meticcia e che lo è, e l'ambito di lingua spagnola in generale è il più vasto meticciato al mondo.
È questo che ci dice il saggio di Martín Caparrós, che ha un titolo particolare. Lui non si riconosce né all'interno della definizione spagnolo, che è un po’ la definizione ufficiale che danno le Accademie, le ventitré Accademie della lingua, che controllano e hanno il polso - o immaginano farlo - sulla lingua parlata in ognuno di quegli stati. In questo saggio vediamo che la lingua è qualcosa che ci mette a confronto e ci porta a interrogarci sui nostri limiti, sulle frontiere, sui nostri limiti mentali e interiori, e sul meticciato: nessuno di noi è puro, nessuna lingua è mai pura, siamo tutti la mescolanza di tante cose, di tante persone, di tanti sguardi che incrociamo, di tante esperienze che facciamo. L’autore dunque rivendica questo spazio, che è lo spazio, oggigiorno, di quasi seicento milioni di persone. Sono quasi cinquecento milioni infatti le persone che parlano lo spagnolo come lingua madre, e quasi seicento milioni quelli che la conoscono su diversi stadi, mentre ventiquattro milioni di persone, alunni in tutto il mondo, la stanno imparando.
Tutto questo non può rientrare all'interno della definizione di spagnolo e nemmeno di latino-americano o di ispano-americano. C'è qualcosa che va più in là, poiché Caparrós ci racconta che non c'è quasi nulla di originario in quelli che noi oggi definiamo i popoli originari dell'America, che spesso ci piace difendere come se fosse un vero ritorno alle origini. In realtà quelle origini sono state piccolissime, non ne resta traccia: quello che è venuto dopo è una grande mescolanza di persone di tutto il mondo. L’autore fa notare che erano dieci milioni soltanto gli schiavi che venivano dall'Africa, di cui due milioni sono rimasti in America Latina. Ancora adesso l'origine influisce fondamentalmente su un altro fattore che lui chiama a definire quella che è la lingua e la cultura della Ñamerica, che sono le disuguaglianze. Si tratta infatti dell'area geografica con più disuguaglianze al mondo, ed è evidente che poi tutte queste ondate - lui ne definisce cinque - sono il risultato che compone la parola ñamericano. Questa parola fa ovviamente arrabbiare la Spagna che, soprattutto in questo periodo di programmazione PNRR, ha assegnato alla promozione della lingua spagnola come valore interno ben un miliardo e cento milioni di euro. C'è infatti un piano sulla lingua spagnola in quattordici punti, che ha a che fare anche con l'intelligenza artificiale: da molto tempo si sta cercando di definire quale lingua debbano parlare le macchine, quindi quale varietà di spagnolo debbano parlare le macchine. Tutto quello che c'è in gioco è, appunto, se davvero esista - all'interno di così tante disuguaglianze come quelle che Martín Barros richiama in questo libro - uno spagnolo per tutti, un posto dentro cui ogni parlante della lingua spagnola si possa sentire allo stesso livello. Gli Stati sono tanti, le frontiere sono tante. La frontiera che gioca ovviamente un ruolo fondamentale è quella con gli Stati Uniti: l'economia della comunità di ispano-parlanti all'interno degli Stati Uniti, che sono ventisette milioni di persone, se fosse parte di uno Stato a sé, sarebbe la settima economia del mondo.
Chi rimane al di fuori di questi parametri, chi rimane al di fuori di questi meccanismi che nel corso dei secoli hanno lasciato evidentissime disuguaglianze, disomogeneità e difformità all'interno del territorio che si riflettono e si trascinano ormai da cinquecento anni? Lo stesso autore si dice “a me, dalla mia Argentina, mi hanno insegnato a chiamarlo castigliano”. In fondo, come chiamiamo la lingua indica lo sguardo con cui ci posizioniamo. Ora, non esiste più la monarchia spagnola: la Spagna diventa davvero un piccolissimo punto sulla mappa. Nel 2060 gli Stati Uniti saranno il secondo paese con più ispano-parlanti al mondo dopo il Messico. L’autore dunque propone di cambiare nome alla lingua spagnola, e di conseguenza a quella grande zona geografica che ancora conosciamo per lo più attraverso luoghi comuni - lui li definisce molto bene in questo libro -, chiedendo che si vada oltre quello che nel corso dei secoli è stato portato via da chi è andato a invadere, o da chi è partito per cercare un'alternativa di vita. Anche le migrazioni recenti lui le racconta molto bene, e non le dimentica, offrendo un panorama storico determinante. Caparrós propone quindi che ci sia qualcos'altro, e che non sia soltanto la speranza di poter diventare qualche cosa di più definito e di riconosciuto nell'ambito globale. Ecco perché propone il nome Ñamerica.
La settimana scorsa c'è stato il congresso a Cadice delle ventitré Accademie del mondo della lingua, e avevano invitato lui come scrittore, come saggista, dal momento che ha vinto l'altro giorno il premio alla carriera Ortega y Gasset per il giornalismo: Caparrós ha dunque offerto questa sua soluzione non come linguista, ma come cittadino multiculturale, cittadino meticcio - come lui, molto orgogliosamente si definisce, e come in fondo è ognuno di noi. C'è stata una polemica terribile, poiché tutto quello che tocca la lingua tocca evidentemente la nostra percezione dell'altro. Il modo in cui viaggiano i nostri libri indica che vastità di orizzonti abbiamo. Basti dire che, per esempio, la Spagna è il primo mercato dell'editoria per l'Italia, il 22% dei titoli editoriali italiani che si vendono di più si trova in Spagna. Curiosamente, per quanto riguarda l'Italia, di ottantamila titoli che vengono pubblicati ogni anno, il 24% sono in traduzione: sono titoli, quindi, che si traducono da altre lingue. Di quel 24%, un 12% tradotto dall'inglese, appena un 3% dal francese, e uno 0,7% dallo spagnolo. Questo ci dà davvero la dimensione di come sia il nostro sguardo sugli altri. È ovvio che da questo punto di vista, che da questo lato dell'oceano, la percezione della Ñamerica sia davvero minima, molto frammentata e molto legata agli stereotipi culturali che ci arrivano. Ecco dunque che Caparrós dice “io parto dal dato”. Sia Caparrós che Marcina Garcés, nel saggio che vedremo tra pochissimo, dicono che c'è un'inflazione di dati: siamo sommersi dai dati, ma poi nessuno riesce a guardare oltre il dato e a vedere, appunto, che anche semplicemente dove vanno i nostri libri ci dice qualcosa di più rispetto ai dati. Curiosamente, la cultura di lingua inglese, che appunto domina in oltre il 50% dei mercati editoriali dell'Europa - anche i più grandi - traduce appena un 3% di libri. La Cina, che magari ci sembra più chiusa, ne traduce un 5%, quindi due punti in più rispetto agli Stati Uniti.
Si tratta di sguardi che ci dicono che cos'è alla fine l'uomo per noi. Ecco perché ho scelto questi cinque saggi, a parte la grande difficoltà di trovare un saggio in traduzione dallo spagnolo sul mercato italiano (davvero molto difficile). Questi sono tutti saggi recenti, si è ristretta la produzione della saggistica in Italia di un 8% in generale, e di oltre un 12% per quel che riguarda la saggistica tecnica. Possiamo immaginare, dentro questo imbuto, la difficoltà di trovare saggi che ci possano parlare di altri mondi, di altre culture, di altre economie, di altre politiche. Quasi tutti questi saggi ci dicono che, alla fine, la storia della lingua è una storia politica, e in sostanza tutti quanti ci dicono che la politica non è quello che fanno i politici, ma qualcosa che va oltre, qualcosa che continua ad avere la capacità di pensare a una definizione che non si limiti allo spagnolo - quando lo spagnolo davvero non rappresenta un’enorme fetta, riguardando quasi l’8% dell'umanità - e si spinga invece a rintracciare altri nomi.

JCD
Certamente, questa lettura getta una luce interessante su un fenomeno di cui parliamo molto ormai da decenni, la globalizzazione, e ci fa capire che è una globalizzazione molto asimmetrica, perché, appunto, certe culture sono estremamente ben rappresentate - fondamentalmente quella anglosassone - e altre invece molto di meno. Tra l'altro, nel caso dell’America Latina è interessante e anche un po’ sorprendente vedere come anche forti contatti tra l'Italia e alcuni di questi Paesi - sicuramente Argentina, ma anche Brasile e altri ancora, ove milioni di italiani sono emigrati nell'Ottocento nel Novecento - non abbiano in realtà aiutato molto ad avere una migliore comprensione reciproca. Passiamo al secondo saggio: come mai ha scelto questo libro? Perché lo raccomanda ai nostri ascoltatori e lettori?

MB
Dunque, Marina Garcés è senz'altro la filosofa più influente del momento per le nuove generazioni in Spagna. È docente di filosofia contemporanea all'Università di Saragozza, e, quando sono andata a cercare la traduzione in italiano di questo saggio che è uscito nel 2017, confesso che non avrei immaginato di trovarlo. L'ha tradotto invece Nutrimenti, in particolare Stefano Puddu, e faccio un piccolo balzo indietro con Sara Cavarero (che ha tradotto Ñamerica): bisogna ringraziare i traduttori quando abbiamo queste opere a portata di mano, soprattutto con una vastità e una diversità linguistica come quella rappresentata dallo spagnolo (Sara Cavrero per Caparrós con Einaudi ha fatto davvero un lavoro eccezionale). Quindi, ho trovato la traduzione italiana di questo saggio che ha appassionato e che continua ad appassionare le giovani generazioni in Spagna, e che è senz'altro una voce che è passata sotto silenzio in Italia in questo momento. Il saggio ci riporta un po’ a quello che ci raccontava Caparrós sulla grande diversità che hanno le persone all'interno degli Stati e nel proprio essere individui con un meticciato di ogni tipo, davvero impressionante.
I
l titolo è “Il nuovo Illuminismo radicale”, e Marina Garcés appunto riprende quello che Caparrós ci dice a proposito della Ñamerica, e lo estende attraverso la filosofia a qualcosa che ci parla in qualsiasi punto del mondo, e ricalca il fatto che siamo in un'epoca postuma, perché dice che abbiamo ormai una credulità sovra-informata e che bisogna andare oltre la lotta per il libero accesso alla conoscenza. Garcés si interroga esattamente come Caparrós, che molto spesso si rifà nelle sue pagine al punto da cui partono l’Encyclopédie e l'Illuminismo, e ci ricorda che già in quel momento, all'epoca degli illuministi, accadde che la disponibilità e l'accessibilità delle nuove conoscenze prodotte in quantità crescente e a maggior velocità non risolvevano i problemi, creandone anzi altri. Diceva l’Encyclopédie, citandola testualmente: “il desiderio di conoscere risulta spesso sterile a causa di un eccesso di attività”. Quindi, senza un buon uso della critica la conoscenza tende a diventare inutile. Quindi, come Caparrós diceva nel suo saggio, quanti più dati conosciamo sulle disuguaglianze in America Latina, sulla situazione economica dell'America Latina, sulla sua situazione educativa o la situazione sanitaria, questo non parla al resto del mondo.
Ed è questo che ci dobbiamo un po’ chiedere: perché se non facciamo un buon uso della critica la conoscenza tende a diventare inutile? Perché pur potendo accedere ai suoi contenuti, non sappiamo come metterci in relazione con loro, né da quale posizione. Anche Caparrós dice: non so nemmeno io dove mi trovo, però voglio provare a formulare e a mettere insieme la conoscenza del dato, dell'esperienza umana e della critica - in un modo umanistico, direi. Ecco, c'è qualcosa che forse abbiamo notato anche in Italia durante la pandemia: ci siamo resi conto che magari Paolo Giordano, che è uno scrittore, riassumeva e sapeva spiegare al cittadino che cosa stava succedendo meglio dei tecnici. Di questo si tratta: tutti questi autori, che fortunatamente sono arrivati nelle librerie italiane, hanno questa capacità di mettere insieme l'immensità dei dati e di darne un'elaborazione critica che è interessante. E quindi Garcés non si limita a immaginarlo, il nuovo illuminismo radicale, e offre delle soluzioni in un saggio che è brevissimo, ma davvero un pugno nello stomaco, e che vi invito a leggere. Lei dice “oggi sono poche le restrizioni di accesso alle conoscenze, ma ci sono molti meccanismi di neutralizzazione della critica”. Ne possiamo mettere in rilievo quattro: la saturazione dell'attenzione, la segmentazione dei tipi di pubblico, la standardizzazione dei linguaggi e l'egemonia del soluzionismo, che è legata ai dati. Garcés lo racconta in modo molto efficace, parla di intelligenza delegata. E quello che sorprende è che, appunto, è un libro del 2017: sono felice di averlo cercato grazie al vostro invito e di averlo reperito in italiano.

JCD
Bene, grazie molte. Passiamo al terzo, che mi sembra che la riguardi direttamente: l’ha tradotto lei, giusto?

MB
L’ho tradotto io, in Italia si chiama “Papyrus”, nel resto del mondo si chiama “L'infinito in un giunco”, ed è la storia del libro nel mondo antico, una storia raccontata in modo molto pop. È un libro che ha venduto in tutto il mondo un milione di copie. Parla di come sono nati i libri, di come si sono sviluppati da Alessandro Magno fino all'Impero romano. Quindi a priori dovrebbe essere una lettura che non è in assoluto pop, che non raggiunge un milione di copie. Che cosa ha saputo fare Irene Vallejo? Filologa, anche lei, all'Università di Saragozza, ha fatto un dottorato in italianistica all'Università di Firenze. Che cosa ha saputo trasmettere di questi due mondi che ci sembrano così lontani, e da cui ci teniamo sempre più lontani perché ci ricordano una certa noia dello studio? Siamo molto abituati a stare sul presente, e il nostro rapporto con il tempo è cambiato molto. Senz'altro un libro che parla dell'antichità greco-latina potrebbe venir colto come un afferrarsi con le unghie al passato.
Non è stato così, perché c'è un tratto che definisce abbastanza bene la Ñamerica. Tra tutte le definizioni che possiamo dare degli ispano-parlanti c'è quella di latinoamericani, ma non nel senso in cui lo pensiamo adesso - che pensiamo al reggaeton, alle bande giovanili dei quartieri più violenti delle peggiori città del mondo, a Shakira, a delle icone davvero molto, molto diffuse. C'è una definizione di latinoamericano che è quella fondamentale definizione che mise in voga Napoleone durante le sue conquiste, ed è quella di discendenti dei Latini del Lazio: loro si sentono, se c'è una parte del latino che la cultura media latinoamericana assimila e in cui si sente effettivamente riflessa, non è quella dell'imperialismo spagnolo, ma quella del dell'imperialismo dell'antica Roma. Questo saggio dunque è stato un boom dal punto di vista delle vendite nella Spagna che si stava richiudendo nel Covid, e quindi è cresciuto lì, ma poi ha saputo parlare a chi voleva avvicinarsi alla cultura greco-latina senza avere un'imposizione accademica, consapevole del fatto che quella cultura è patrimonio comune. In America Latina ha quindi venduto tantissimo proprio per questa identificazione con il mondo e con la cultura romana.
Che cosa ci dice Vallejo sostanzialmente? Che tutto quello che oggi vediamo come grande diffusione della rete, invece, era qualcosa che già esisteva. Il voler accumulare saperi in un unico luogo e renderlo accessibile a tutti era già stato inventato da Alessandro Magno: stava nella biblioteca di Alessandria d'Egitto, e attraverso la cultura greca, poi, si espande nel mondo latino e diventa patrimonio di tutti. All'interno aveva un'enorme quantità di papiri, e la storia del libro è anche proprio la storia dei materiali con cui sono fatti i libri e con cui si evolvono nel corso dei secoli, pur essendo il libro, come diceva Umberto Eco, un oggetto che nasce già perfetto: ci possiamo girare più o meno intorno, farlo più o meno gradevole dal punto di vista estetico, però il libro è come la ruota o come il cucchiaio, nasce già perfetto, non è ulteriormente perfezionabile. La biblioteca di Alessandria d'Egitto - non riusciamo a stabilirlo - a seconda delle fonti, aveva a quel tempo, quindi a partire dal II secolo avanti Cristo, tra i quaranta e i settecento mila papiri. Abbiamo questo ballo di cifre tra una quantità e l'altra. E qual era il problema di questa enorme quantità di papiri? È lo stesso che abbiamo noi oggi, ossia di metterli in ordine e di sapere non solo dove andare a cercare, ma che cosa c'è dentro.
Quindi, quando oggi un’invenzione tecnologica ci sembra così straordinaria, non riusciamo invece a pensare banalmente a chi ha inventato l'ordine alfabetico, e a chi ha inventato i cataloghi per andare a sapere, a scoprire di quale area del sapere stiamo parlando, e quindi che cosa abbiamo accumulato in quell’angolo. Ciò che rese diversa la grande biblioteca allora, proprio come succede oggi per internet, furono le tecniche, semplificate al massimo ma al contempo avanzatissime, “per non perdere mai il filo nel caotico groviglio della sapienza scritta”. Organizzare l'informazione continua a essere una sfida fondamentale in questa nostra era delle nuove tecnologie, così come fu nell'epoca dei Tolomei. Beh, mi sembra che il porsi dal punto di vista umanistico in questo modo rispetto al sapere sia forse una delle caratteristiche dell'intellettualità del mondo ispano-americano. Siamo così consapevoli del fatto che siamo di fronte a una incredibile vastità - Caparrós in alcuni passaggi ci parla della varietà linguistica che sicuramente ChatGPT non potrà cogliere, o comunque coglierà con molta difficoltà, ci metterà davvero tanto, perché la varietà sta in ogni parlante.
Questi saggi hanno senz'altro delineato un punto di cambiamento nelle culture di lingua spagnola di questi anni. Sono tutti nati poco prima o durante il Covid, come quello di Caparrós, e hanno mosso qualcosa. Non a caso, nei dati europei di lettura del 2022, la Spagna è stato l'unico Paese che, dopo grandi performance anche nel 2021, ha aumentato le vendite editoriali di un 5,5%, dove invece, per esempio, la Francia ha perso il 4%, la Germania intorno al 3% e l’Italia anche. C'è questa spinta che porta soprattutto la saggistica ad emergere. Anche questo è uno dei tanti fattori che si riescono a tener d'occhio e che danno speranza.

JCD
Molto interessante, ovviamente, anche il dialogo tra culture. Proprio Cinque Libri è una delle iniziative del Politecnico di questi anni che sono appunto centrate sul dialogo tra la cultura umanistica e delle scienze sociali e quella tecnologica delle discipline più tradizionalmente politecniche. Grazie quindi per aver scelto questo libro, perché in fondo anche il libro è una tecnologia. Grazie per questa attenzione, passiamo al penultimo libro di un grandissimo scrittore spagnolo.

MB
Come penultimo libro abbiamo Javier Cercas, con il suo “Colpi alla cieca”. Questo è proprio appena uscito, è una raccolta di suoi scritti giornalistici pubblicati da El Pais nel corso di più di vent'anni. Senz'altro Javier Cercas è la figura più nota in ambito editoriale in Italia, un intellettuale che ha molta familiarità con Torino, con il Salone del Libro, e sorprende vedere come anche lui si rapporta a questi temi: già nel 2006 parla del rapporto tra la tecnologia e la democrazia, parla di Ucraina nel 2008, parla di sinistra “fighetta” nel 2016. Ed è sorprendente vedere - come abbiamo sottolineato anche per Caparrós, per Garcés o per Vallejo - la capacità di dominare i temi mondiali a tutti i livelli e di racchiuderli poi in una sintesi critica che è davvero utile per il lettore, per il cittadino. Avevo un po’ di timore nel definire questi autori “intellettuali”, perché è una parola su cui anche in Italia si sta discutendo molto. Questo saggio è uscito il mese scorso, tradotto e curato da Bruno Arpaia, quindi la selezione di articoli - tra le migliaia di articoli che può avere scritto Javier Cercas nella sua carriera - è stata spulciata rigorosamente da Arpaia, e messa insieme in questo saggio davvero ben definito. Javier Cercas, che poi parla perfettamente l'italiano, così come parla perfettamente il francese, l'inglese e il tedesco, è senz'altro quel concetto di umanista ben rappresentato da Petrarca, ovvero colui che riesce a dominare la scienza e la letteratura nello stesso modo, con la stessa facilità. Ecco quindi che nell’introduzione al suo saggio Cercas definisce l'intellettuale come una “mescolanza insalubre di esibizionista, arrampicatore, e di ciò che in Italia si chiama tuttologo”. Quindi lui, nel fare l'introduzione a questo saggio, usa una parola italiana e dice: se qualcuno mi definisce intellettuale io non ci sto, perché ho una paura tremenda di essere considerato un tuttologo all'italiana. Cercas traccia quindi un confine molto interessante tra ciò che è il romanziere e ciò che è l'intellettuale, almeno secondo lui. E lì, probabilmente, sta il segreto del perché una persona che scrive e che legge romanzi e che è abituata ad ascoltare il mondo per poi tradurlo nei romanzi, riesce anche a riassumerlo per tutti in un modo efficace. “Il romanziere e gli intellettuali, in definitiva, sono personaggi opposti. Il romanziere non dice mai né sì né no, perché quando si trova ovviamente nella scrittura di un libro, tutte le possibilità sono aperte. Perché lo strumento essenziale del romanzo è l'ironia.” Ecco un altro punto su cui tutti i saggi tornano, parlando di tecnologie di delega dell'intelligenza: questa mancanza di ironia che ci sta un po’ sommergendo tutti.
Quindi, “a meno che lo scrittore rinunci a essere un cittadino, questi due personaggi contrari si disputano la sua persona, scatenando dentro di lui una battaglia spietata”, e alla fine: “bisogna far convivere l'ideale di quella contesa. Non deve concludersi con la vittoria di nessuno dei due personaggi. L'ideale è che il cittadino fornisca esperienza, idee, convinzioni al romanziere”. E qui c'è davvero il segreto di quella che è la figura dell'intellettuale, diciamolo, davvero intellettuale e umanista. A me piace molto riprendere il termine umanista per definire tutti questi autori che, probabilmente per il fatto di trovarsi alle prese con un mondo in lingua spagnola, così meticcio, così variato, riescono poi a riassumerlo, a parlare per tutti, a farlo anche per il resto dell'umanità.

JCD
Bene, siamo giunti all'ultimo libro che tocca proprio da vicino il nostro mondo Politecnico. L'unico che, se ho ben capito, non è stato ancora tradotto in italiano, e che parla proprio di ingegneri. Un imperio de ingenieros”. Come mai questa scelta?

MB
Questo è un libro uscito un anno fa, e quando mi avete offerto la possibilità di parlare delle culture in lingua spagnola ho ovviamente pensato a voi, un po’ per lo stesso motivo per il quale, mentre gli altri quattro autori sono in qualche modo definiti in un modo più forte come umanisti, qui sono due ingegneri che lo scrivono e raggiungono le stesse vette di umanesimo che troviamo negli altri. Quindi, è un libro scritto con una perizia che non è solamente quella tecnica, con una scrittura appassionante, che non è facile rintracciare, appunto, nei tecnici. È anche vero che gli ingegneri sono stati il motore di quello che per più di tre secoli è stato l'impero su cui non tramonta mai il sole, e che noi pensiamo solo in termini di colonie d'oltre mare. All'interno di questo libro invece c'è un forte legame con l'Italia - Filippo II adorava gli architetti e gli ingegneri italiani - e dobbiamo pensare anche, per esempio, ai possedimenti nei Paesi Bassi, in Germania, quindi quando parliamo di impero forse ne abbiamo una visione limitata.
Questo libro riporta invece proprio in tutti gli ambiti dell'impero in cui è stato costruito qualcosa, e ci racconta come gli ingegneri siano diventati tecnici indispensabili per la monarchia, per costruire direttamente il funzionamento degli Stati. C'era una gran richiesta di ingegneri al tempo. Il profilo di quello che era un ingegnere è stato definito infinitamente dopo, si trattava piuttosto una figura a metà tra l'artista e il tecnico. Ci dicono gli autori, Felipe Fernández-Armesto y Manuel Lucena Giraldo, che qui, probabilmente, con lo sviluppo della figura dell'ingegnere nell'impero per la corona di Castiglia, si è definita anche quella che è la differenza tra il sapere teorico e il sapere pratico.
In un certo modo, gli autori raccontano che queste figure facevano una sorta di alternanza scuola-lavoro: sono stati i precursori di questo modo di apprendimento che oggi ci sembra così diffuso. Il libro ci mostra come cambia il processo attraverso cui la percezione della conoscenza arriva a tanti livelli, raccontandoci, in un modo godibilissimo, di come questi ingegneri - che molto spesso erano architetti o esperti di cosmologia - si occupano del reperire i materiali, e si accorgono, una volta arrivati nel nuovo mondo, che lì non c'era la polvere da sparo, che gli edifici a volta non esistevano, pur avendo, ad esempio l'Impero Azteco, costruito strade in posti assolutamente impervi. Mancano i cavalli per trasportare i materiali. Non esiste la ruota. Quindi è davvero un ricominciare da zero, impararlo in un altro modo.
Gli autori, però, sottolineano anche come coloro che andavano oltremare fossero proprio quelli che non riuscivano a sbarcare il lunario sul continente. Si parla di Cervantes stesso, e di come le sue abilità di tecnico lo assimilavano in qualche modo all'ingegnere, o comunque all'idea della figura del dell'ingegnere che c'era allora. Figure, quelle degli ingegneri, che hanno cambiato il panorama dell'urbanizzazione, che ancora rimane molto forte. Si tratta quindi di uno sguardo in più su quella che è l'enorme diversità che non conosciamo, e che molto spesso nemmeno gli ispano-parlanti conoscono, anche dal punto di vista dell'ingegneria. Tra l'altro, la Real Academia de Ingeniería di Spagna ha un rapporto molto forte con tutta l'area umanistica e linguistica. La parte tecnica dei dizionari di spagnolo è costruita in forte collaborazione con la Real Academia de Ingeniería.

JCD
Molto interessante, effettivamente anche la cultura tecnica, la cultura degli ingegneri è una cultura che - tranne casi particolari come questo - gli ingegneri stessi non raccontano, e incontra un interesse che è chiaramente presente, però non vivissimo. Quindi, certo che c'è una storia della tecnica, relativamente recente come disciplina, però si potrebbe e si dovrebbe fare molto di più per raccontare tutta questa parte del mondo, e non soltanto gli ingegneri famosi, ma ovviamente anche i molti ingegneri più umili che hanno contribuito e contribuiscono tuttora a fare cose molto utili per l'umanità, oltre ovviamente anche a strumenti di oppressione e sfruttamento, e via dicendo. Quindi grazie molte per questo ultimo suggerimento.
Bene, grazie per questa offerta, questo invito ad accostare un mondo ricchissimo, che chiaramente va molto al di là di questi equilibri. Questa è la nostra formula: suggerire, grazie a una persona autorevole e molto esperta, cinque punti di ingresso. Poi, ovviamente, se qualcuno accoglie questo invito, leggendo questi libri si inoltrerà in una ragnatela di moltissimi altri libri che chiaramente sono collegati ai cinque che ha selezionato la nostra ospite. Quindi, grazie molto alla professoressa Monica Bedana. Buona lettura e buon ascolto di questa puntata.

MB
Grazie, buona lettura.