Tra i fondamenti dell’architettura | Pier Paolo Tamburelli

Chi è Pier Paolo Tamburelli

Tamburelli

Pier Paolo Tamburelli ha studiato all’Università di Genova e al Berlage Institute Rotterdam. Nel gennaio del 2004, assieme a Paolo Carpi, Silvia Lupi, Vittorio Pizzigoni, Giacomo Summa e Andrea Zanderigo, Tamburelli ha fondato lo studio di architettura baukuh, che ha sede a Milano. baukuh ha completato la Casa della memoria a Milano (2015) e il padiglione di ingresso del Birrificio Angelo Poretti ad Induno Olona (2019), sta restaurando la Seminar School di Hoogstraten e la città studentesca di Tirana e ha recentemente vinto il concorso per la nuova Biblioteca Europea di Cultura di Milano.

Tamburelli ha coordinato la ricerca James Stirling 1964-1992. A Non-Dogmatic Accumulation of Formal Knowledge (OASE #79) ed è stato uno dei fondatori della rivista “San Rocco”. Ha ricevuto l’Icon Awards 2012, è stato nominato per lo Harvard GSD Wheelwright Prize 2016 ed è stato membro della giuria della XVI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia (2018). Nel 2022 ha pubblicato On Bramante per MIT Press.

Tamburelli ha insegnato ad Harvard GSD, UIC Chicago, Politecnico di Milano ed è attualmente professore ordinario di Teoria del Progetto al Politecnico di Vienna.

“De Architectura”

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Vitruvio

“L’architettura della città”

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L'architettura della città

“Complexity and Contradiction in Architecture”

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Complexity

“Delirious New York”

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Delirious

“Absalom, Absalom”

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Absalom

Manfredo Di Robilant (MDR)
Siamo qui con Pier Paolo Tamburelli per un'altra puntata della serie “Cinque Libri” del Politecnico di Torino. Siamo al Castello del Valentino, sede del Dipartimento di Architettura e Design. E di architettura parliamo con il nostro ospite che è Professore Ordinario di Teoria del Progetto al Politecnico di Vienna. Pier Paolo Tamburelli è co-fondatore dello studio Balconi e ha ormai un'esperienza quasi ventennale alle spalle. Fra le sue pubblicazioni voglio qui citare il saggio “On Bramante”, pubblicato nel 2022 da MIT Press, oltre che il trattato “Grundkurs: What is Architecture About?”, pubblicato nel 2023 da Mack. Fra le altre sue attività, Pier Paolo è stato co-fondatore di San Rocco, una rivista che è ormai un classico nell’editoria di architettura contemporanea, oltre che membro della giuria dell'edizione 2018 della Biennale di Architettura di Venezia. Come da format, il nostro ospite attraverserà cinque libri che ha selezionato in quanto li ritiene significativi per un settore che, nella fattispecie appunto, è l'architettura. I primi quattro libri Pier Paolo li presenta in ordine cronologico e sono libri che afferiscono direttamente all'architettura in quanto disciplina, mentre invece il quinto è una fiction in cui centra l'architettura, e ci dirà poi lui come e perché. Il primo è un libro fondativo della cultura architettonica: si tratta del “De architectura” di Vitruvio, scritto agli albori dell'Impero romano sotto il regno di Augusto. Questa è un'edizione tardo cinquecentesca veneziana. Il libro è stato riscoperto nel Rinascimento italiano e questa edizione viene curata dalla Biblioteca del Castello. Passo la parola a Pier Paolo, che ringrazio intanto di essere qui con noi.

Pier Paolo Tamburelli (PPT)
Grazie a voi per avermi invitato. Io ho cercato di scegliere quattro libri molto canonici che potessero illustrare cos'è l'architettura ma anche il perché la consideriamo una forma di produzione intellettuale rilevante all'interno della nostra società, che non è una cosa scontata. Sono stati i romani ad attribuire un’importanza particolare a quest'arte, rispetto ad altre civiltà in cui tutto sommato non è così carica di significati. Questo è il motivo per cui ho pensato di cominciare in maniera molto noiosa, con Vitruvio, il cui libro non è certamente divertente da leggere, come non lo sono la maggior parte dei libri di architettura, spesso letture poco emozionanti o soddisfacenti dal punto di vista letterario. Eppure nell’architettura come disciplina c'è questa specie di assurda ossessione per la scrittura, cosa che non caratterizza invece la storia della pittura occidentale o la storia della scultura occidentale: la scrittura sulla pittura, ad esempio, è tendenzialmente fatta da critici, non da pittori. I pittori scrivono poco. Gli architetti invece scrivono sempre e scrivono spesso malissimo. Questo dipende, secondo me, dal valore metodologico che ha l'architettura rispetto a una società. C’è una definizione molto bella di Vilanova Artigas che dice che “l'architettura è il dare forma al progetto che una civiltà si impone”. E quindi in questa dimensione collettiva del lavoro dell'architetto, che gestisce anche risorse enormi in termini economici e di quantità di lavoro necessaria a eseguire gli edifici, c'è questo bisogno quasi di staccare sempre l'oggetto-edificio dalla sua figura. E in questo piccolo spazio c'è la libertà intellettuale di questa ricerca. Questo fa sì che si crei questa strana affinità con la scrittura, questa voglia di spiegarsi che spesso, quando tradotta veramente in libri, è molto pedante, molto noiosa. E Vitruvio è un esempio lampante di un intellettuale piuttosto insicuro. C’è questo passo famoso, all'inizio del primo libro, dove Vitruvio fa l'elenco di tutte le discipline che l'architetto deve conoscere: la musica, la geografia, le scienze, il diritto, insomma tutto lo scibile. Ed è così evidente, leggendolo, che in effetti l'architetto non le sa tutte queste cose. Ed è proprio questa incertezza e questo continuo muoversi tra tante discipline che caratterizza la sua forma di sapere. In questo, secondo me, Vitruvio è interessante, perché delimita il campo e lo delimita tutto sommato ancora adesso, nel definire qual è lo spazio in cui in cui ci muoviamo e quali sono i limiti di un lavoro a cui attribuiamo valore intellettuale.

MDR
Quindi, sì, Vitruvio come testo che aiuta a circoscrivere un campo estremamente vasto, forse illusoriamente vasto. Per quanto concerne il secondo libro, invece, facciamo un salto in avanti, nel XX secolo. Siamo nel 1966 e Aldo Rossi, giovane architetto e intellettuale, pubblica questo saggio, “L’architettura nella città”, che avrà poi rapidamente una grande fortuna, verrà tradotto in tante lingue ed è tuttora un testo direi cardine della cultura architettonica contemporanea. “L'architettura della città” è un testo che, insieme ad altri, segna la crisi della cultura architettonica moderna così come era stata fondata dalle avanguardie storiche negli anni Dieci, Venti e ancora negli anni Trenta. Aldo Rossi, rispetto a questa cultura che fino all'epoca era dominante, spariglia le carte. Vediamo come.

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Il libro di Aldo Rossi è quanto di più simile a un trattato così come lo intendiamo oggi, anche se ormai ha più di cinquant’anni. Però, allo stesso tempo, è un libro che non riesce ad essere veramente un trattato, nel senso che non tratta in modo sistematico di tutti gli argomenti. Ed è forse proprio questa una delle cose più belle del libro, che al contrario di tanti altri è un libro molto ben scritto, con pagine veramente straordinarie alternate a pagine, anche lunghe, che sono invece poco interessanti. Il libro è messo assieme piuttosto velocemente per partecipare a un concorso universitario, nel quale Rossi ricicla anche degli articoli poco rilevanti, ad esempio sulla questione abitativa in Germania, avendo però l'accortezza di dire al lettore che possono anche essere saltati. Al suo interno, però, ci sono dei veri e propri picchi in cui Rossi offre effettivamente un paradigma nuovo alla riflessione di quell'epoca. E tutti questi picchi sono sempre formulati in maniera estremamente perentoria – dalla teoria alle sue conseguenze – senza che tuttavia si entri davvero nel dettaglio: resta quindi questo schizzo, a tratto larghissimo, di una potenziale teoria che è estremamente innovativa e coerente, ma che resta un abbozzo che poi Rossi, anche per sue vicende personali, non proseguirà a sviluppare nel resto della sua carriera, lungo la quale passerà dal trattare della città come forma di corrispondente materiale di un inconscio collettivo al concentrarsi molto più sulla sua esperienza personale, sulla sua memoria personale. Che poi è l’Aldo Rossi più famoso, quello delle caffettiere, dei disegni e di tutte queste cose. Questo libro, invece, è il libro di un giovane intellettuale comunista che scrive soprattutto per non architetti. E questo è veramente significativo se lo si confronta, ad esempio, con il coevo libro di Venturi, che è un libro fatto tutto di immagini, dove il testo conta piuttosto poco.

MDR
… infatti, se teniamo aperti i due libri, l’uno vicino all’altro, vediamo questa contrapposizione. Sono due modi diversi di riflettere sull’architettura, su cosa dovrebbe o potrebbe essere l'architettura. Notiamo nel libro di Rossi un apparato sterminato di note che nel libro di Venturi non c’è.

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Aldo Rossi, nel suo libro, cita Alexander von Humboldt o Voltaire o Marcel Poëte, cioè tutti autori che non sono direttamente architetti, perché il suo progetto di critica del Movimento Moderno, di quello che lui chiama il “funzionalismo ingenuo”, è in realtà un progetto di critica del soggetto liberale alla base dell'architettura moderna. È una critica non tanto alla produzione sua contemporanea, quella un po’ stanca, non lo so, dell'ultimo Brouwer o di altri architetti moderni già ormai un po’ avanti con gli anni, ma è una critica più generale, da Laugier in giù, di una nuova idea di architettura totalmente basata su un soggetto singolo, come singolo è l'uomo primitivo che si fa la capanna nel racconto di Laugier, dove tutto questo succede senza che l'uomo primitivo conosca nessun'altra persona. L'uomo primitivo è Adamo, quello di Laugier, ma Eva non c'è e non c'è nessun altro. Non c'è linguaggio, non c'è nulla. Questa costruzione dell'architettura moderna sembra essere fondata su un individualismo veramente estremo. E Rossi, secondo me, critica questa cosa ed è per questo che il suo lavoro, anche se frammentario, ha avuto un impatto così forte sulla disciplina. Perché Rossi si confronta veramente con i principi, al contrario di altri autori.

MDR
Dovendo sottolineare una connessione con il libro di Vitruvio, si può forse dire che mentre Vitruvio stabilisce e definisce un campo disciplinare molto vasto entro cui l'architettura si muove, Aldo Rossi inscrive invece l’architettura soprattutto dentro un contesto fisico che è la città, come dice il titolo del suo libro, intesa però anche come un contesto storico e sociale entro cui l'architettura stessa deve stare inevitabilmente. Quindi da un lato Vitruvio, che definisce l’architettura come disciplina tra le discipline - una disciplina che deve comprenderne tante altre -, dall’altro Aldo Rossi, che inscrive invece l'architettura dentro uno spazio fisico, sociale, storico. Può funzionare, secondo te, come filo logico tra i due?

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Sì, Rossi è famoso per questo ritorno alla cosiddetta autonomia disciplinare, che secondo me è una discussione un po’ buffa, nel caso di Rossi, perché sembra che l'architettura venga ridotta a una visione estremamente normativa. Ma, per Rossi, questa idea abbastanza conservatrice dell'architettura è basata su una lettura della città, e del mondo che sta attorno a questa architettura, estremamente aperta e pluridisciplinare. Tant'è che le fonti di Rossi, nel libro, spesso non appartengono al mondo dell’architettura. E quindi questo elemento dell'autonomia disciplinare, secondo me, va sempre un po’ capita perché può sembrare una grande limitazione quella che propone Rossi, cioè di pensare all'architettura come pensa ai suoi oggetti, così spogli, così semplici. Ma questa cosa, in realtà, è basata su una lettura della città che è enormemente più sofisticata, più complessa. In questo senso, secondo me, è veramente importante il titolo del libro, un titolo che sembra quasi stupido, “l'architettura della città”, e che può essere inteso in due modi. Il “della città” è un genitivo che può essere inteso come genitivo oggettivo o soggettivo. Ora, senza farla tanto complicata, l'alternativa è tra un'architettura che produce la città, che viene prima, come per il modernismo, come per Laugier, dove la città è fatta della somma delle varie architetture; e quella che è la proposta di Rossi, completamente opposta, cioè l'idea che l'architettura è della città, cioè che l’architettura appartiene alla città, che è fatta a partire dalla città: in questa lettura, è la città che viene prima dell'architettura. E Rossi lo dice esplicitamente, a un certo punto del libro: l'architettura presuppone la città e quindi presuppone la complessità della città, ed è per questo che può essere poi così semplice, così spoglia, così diretta.

MDR
A proposito di titoli, e a proposito di cosa viene prima, il terzo testo che hai scelto è, come dicevi, sempre del 1966, ed è di nuovo di un giovane architetto intellettuale americano, Robert Venturi, che pubblica questo testo Complexity and Contradiction in Architecture” come frutto di un soggiorno di studio a Roma che aveva effettuato qualche anno prima. “Complexity and Contradiction in Architecture” si inscrive nella stessa temperie culturale che aveva visto la pubblicazione del libro di Aldo Rossi, vale a dire la crisi dell’architettura moderna così come era stata codificata in qualche modo dalle avanguardie. In “Complexity and Contradiction in Architecture” cosa c’è prima? La complessità o la contraddizione? Sempre che abbia senso pensare a una ciclicità logica a partire dal precedente interrogativo su che cosa viene prima, se la città o l’architettura. E sempre al netto delle differenze che vedevamo prima tra i due libri, in termini idi argomentazione, là più scritta qui più visiva.

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Io credo che “Complexity and Contradiction in Architecture” sia un libro teoricamente meno ambizioso di quello di Rossi, ed è anche un libro tutto sommato più modernista. Venturi non vuole ribaltare il paradigma, vuole semplicemente espandere il campo delle possibilità. Il libro è in effetti costruito come una collezione straordinaria di immagini impaginate con grandissima cura - e in questa prima edizione le immagini sono anche così piccole che in un certo senso si possono riconoscere quasi solo se sai già che cosa sono -, per cui è facile riconoscere le relazioni che stabiliscono fra di loro. Il contenuto teorico del libro è tutto sommato abbastanza tenue. La struttura dell'argomento è: mi piace questo, ma mi piace anche quell'altro, poi mi piace quell’altro ancora. Da qui la “contraddiciton”, da qui la “complexity”, ma anche una sovrana indifferenza ad attribuire una struttura logica rigorosa, come Rossi ha provato a fare nel suo libro, anche senza riuscirci completamente. Quello di Venturi è un libro straordinario che descrive la passione per l'architettura di una persona che fa questo mestiere, dove il rapporto diretto, la voglia anche quasi proprio di giocare dell'autore, è esposta in maniera molto piana, molto serena, non nella maniera tormentata di Rossi. “L'architettura della città” è scritta da qualcuno che è convinto che la città sia un progetto politico di una comunità, al quale è doveroso contribuire. “Complexity and Contradiction in Architecture” è un libro molto più facile da leggere e da sfogliare, è un libro che non è necessario leggere da cima a fondo per capirlo e che mostra oggettivamente una grandissima quantità di opere architettoniche stupefacenti, che sono delle piccole meraviglie, a volte anche un po’ buffe. E in questo credo che risieda anche molto del suo successo in confronto ad altri libri che hanno fondato la storia della disciplina, che sono sempre così seri, così corposi.

MDR
Forse una contrapposizione particolarmente emblematica con Aldo Rossi - dimmi se sei d’accordo - è che mentre quello di Rossi è un libro che propone una visione determinista dell'architettura, e attraverso l’architettura, invece Robert Venturi, nel suo, propone una visione più eclettica, in cui anche il dogma di un legame intrinseco, inevitabile, tra architettura e politica è molto più sfumato.

PPT
Venturi non parla mai di politica, mentre Rossi ne parla sempre. È anche molto bello che alla fine una disciplina che tutto sommato è così limitata nell’esprimere messaggi ospiti al suo interno la possibilità per accogliere posizioni così lontane.

MDR
A questo proposito, il quarto libro che hai scelto è “Delirious New York”, pubblicato nel 1978 da un giovane architetto intellettuale, Rem Koolhaas, diventato poi un monumento della scena architettonica contemporanea. “Delirious New York”, che ha come sottotitolo “A Retroactive Manifesto for Manhattan”. Rispetto al tema che toccavi adesso, quindi su cosa può dire l’architettura, questo è forse un libro più eloquente, nel senso che c'è una città specifica, appunto New York, nello specifico Manhattan, che diventa protagonista di una specie di racconto architettonico. Non so se ti trovi d'accordo con questa brevissima introduzione al testo.

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“Delirious New York” è forse il più bel libro che si occupa strettamente di architettura che io abbia mai letto. È scritto molto bene e mi sentirei di consigliarlo a tutti. Non è come “L'architettura della città”, fatto di picchi straordinari ma anche di parti noiose e poco interessanti. “Delirious New York” è proprio un bel libro, è bello da leggere, sono belle le immagini che ci sono. Ma è un libro che proprio per questo, secondo me, è stato un po’ frainteso, nel senso che non è stato riconosciuto per la sua grande ambizione teorica. Io credo che questo libro provi anche a portare avanti l'ipotesi che Rossi fa in “L'architettura della città”, leggendo un caso specifico che è la storia di Manhattan, per cui Rem Koolhaas scrive quello che lui chiama un “retroactive manifesto”, cioè un manifesto retroattivo che cerca di definire la teoria del fenomeno del “manhattanismo”, un'ideologia della congestione, della complessità, della compresenza nella metropoli di una moltitudine di possibilità che viene esplicitamente prodotta attraverso la costruzione degli edifici. Questo libro è a mio parere molto ambizioso, un'ambizione che secondo me riappare nella carriera di Koolhaas solo a momenti, e che qui si traduce immediatamente nei progetti descritti alla fine del libro, progetti di Koolhaas, di Zenghelis, di Vriesendorp, dove questa capacità di narrare che Koolhaas riesce a trovare nella città di New York diventa un presupposto per una nuova architettura. Un’architettura che però, nonostante questo sia un libro del 1978, rimane molto trattenuta, che non vuole essere linguaggio in maniera sfacciata. Da questo punto di vista, credo che il libro sia molto simile a “L’architettura della città”: lo è nei presupposti, lo è nell'ipotesi di una critica più grande, più di lungo periodo, seppur attenta a raccontarla in maniera molto più leggera, più multiforme, più libera da una certa rigidità, forse anche molto italiana, di cui Rossi soffriva. È quindi un prodotto molto ibrido che deliberatamente si lascia interpretare in maniera diversa. Sono sicuro che altri potrebbero dare un'altra interpretazione del libro, mentre “L'architettura della città” e “Complexity and Contradiction in Architecture” sono libri molto più facili da catalogare.

MDR
Sì, anche perché, fra i quattro che abbiamo visto finora, questo - come dicevi - è anche il libro in cui la scrittura è più interessante intrinsecamente, essendo quasi la fiction di una città. Parlando proprio di fiction sono molto curioso di sentire da te quali sono le ragioni per le quali hai incluso come quinto libro “Absalom, Absalom”, il romanzo del 1936 del grande scrittore americano William Faulkner, in cui l'architettura c’entra per qualche ragione.

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Sì, allora “Absalom, Absalom” è uno degli infiniti libri di William Faulkner ambientati in questa contea fittizia del Mississippi (Yoknapatawpha) del periodo appena dopo la fine della guerra civile americana. Il protagonista della straordinaria sequenza di sciagure che sono riunite in questo libro è il colonnello Thomas Sutpen, un personaggio oggettivamente orribile che distrugge la vita della sua famiglia e di tutte le famiglie vicine, ma che a un certo punto racconta la storia della sua vita. La costruzione narrativa di Faulkner è molto complicata. La storia, se ricordo bene, è raccontata da due ragazzini, uno dei quali si è fatto raccontare la storia dalla zia, che a sua volta la racconta. Ci sono quindi molti passaggi avanti e indietro, salti temporali che sono praticamente impossibili da seguire. Ma a un certo punto il protagonista (nel bene e nel male) di tutta questa vicenda racconta la storia della sua vita e la racconta al padre di uno di questi ragazzini nel momento in cui stanno andando a caccia dell'architetto della sua casa, il quale è scappato. Si tratta di un architetto francese che viene da New Orleans o, forse, dalla parte francese delle Antille.

MDR
… il romanzo è ambientato a metà dell’Ottocento, se non sbaglio.

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Sì, appena dopo la fine della guerra civile, dopo il 1860. Thomas Sutpen, insieme a tutta una serie di altri proprietari, va letteralmente a caccia dell'architetto, che è scappato - perché non lo sopportava più - abbandonando a metà la sua nuova casa. Una caccia in piena regola, fatta con gli schiavi e con i cani, di una crudeltà assoluta, che rivela l’esistenza di rapporti sociali mostruosi. La caccia si conclude con il ritrovamento dell'architetto (secondo Faulkner un grande artista), che viene picchiato e riportato al suo posto. La notte prima della cattura dell’architetto, Thomas Sutpen racconta l'origine della sua vicenda, quella di un ragazzino povero nel West Virginia - già allora uno dei luoghi più poveri degli Stati Uniti - i cui genitori, una volta, inviano a portare qualcosa a casa di un signore molto più benestante. Giunto in questa casa la servitù che lo accoglie lo obbliga a non usare l'ingresso principale, ma a fare il giro da dietro, passando dalle cucine. Questo dettaglio, questo piccolo trauma nella vita di una persona che poi ne combinerà molte nella sua vita, diventa il motivo di un riscatto che lui in qualche modo deve ottenere. Questo riscatto passa dall’avere successo e accumulare ricchezza nelle Antille francesi, dal sedare da protagonista e con infinita crudeltà una rivolta di schiavi, ma soprattutto - alla fine - dalla decisione di investire e costruire questa grande casa che finalmente lo metterà nella posizione degli stessi oppressori che gli avevano impedito di accedere a quell’altra casa. In tutto questo l'architettura mostra, in modo molto evidente, quasi violento, come essa sia anche una forma di costruzione muta del proprio mito. Infatti l'architetto è dipinto da Faulkner come un grande artista proprio perché non rimane succube di tutte le turbe di Thomas Sutpen. C’è insomma questo legame, che secondo me non appare così evidente in altri libri, tra architettura e accumulazione originaria, in cui è chiaro che l'architettura serve letteralmente a fissare nel suolo qualcosa che si vuole anche fissare nella memoria della società. Qui, ovviamente, è una questione tutta privata, legata alla vita di questo colonnello che combatterà poi nella guerra civile e sarà sconfitto, come d’altronde quasi tutti gli eroi o gli antieroi di Faulkner. Secondo me, però, qui più che altrove, proprio perché non si parla di architettura, proprio perché l'architetto francese è una figura marginale della storia, diventa davvero evidente che cosa fa l'architettura nella società, diventa evidente come l'architettura sia anche una forma di riflessione politica, critica, sulla violenza, che Faulkner ha la grande capacità di raccontare. Il libro, poi, è scritto benissimo e mi sento davvero di consigliarne la lettura.

MDR
Quindi, concludiamo la nostra chiacchierata con un libro in cui compare un architetto come figura secondaria di una storia in cui il protagonista, a partire da un trauma legato a come si “percorre l'architettura”, a come si entra in un'architettura - nel suo caso non dall'ingresso principale ma da quello posteriore -, inizia il viaggio della sua vita, fatto come tutti i viaggi di avventure e disavventure. Con questo, quindi, chiudiamo idealmente il cerchio, ricordando che i cinque libri di cui abbiamo parlato si trovano tutti nella Biblioteca Centrale del Castello del Valentino. Di nuovo ti ringrazio Pier Paolo per essere stato nostro ospite.

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Grazie a voi.