Perché dobbiamo capire la Cina | Alberto Bradanini

Chi è Alberto Bradanini

Alberto Bradanini

Alberto Bradanini, laureato in Scienze Politiche all’Università di Roma La Sapienza, inizia la carriera diplomatica nel 1975, ricoprendo diversi incarichi alla Farnesina e all’estero, tra cui Belgio, Venezuela, Norvegia e Nazione Unite. 

Si è occupato di Cina per molto tempo, trascorrendo in quel paese dieci anni in diversi momenti, in particolare dal 1991 al 1996 quale Consigliere Commerciale presso l’Ambasciata a Pechino, quindi come Console Generale d’Italia ad Hong Kong dal 1996 al 1998. Alla Farnesina ha svolto l’incarico di Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina dal 2004 al 2007, ed è stato responsabile dell’ufficio istituzionale internazionale di Enel (2007-2008). 

È stato quindi Ambasciatore d’Italia in Iran dall’agosto 2008 al dicembre 2012 e infine Ambasciatore d’Italia a Pechino dal 2013 al 2015. È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

"Storia del pensiero cinese"

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Anne Cheng, Storia del pensiero cinese

"Trattato dell’efficacia"

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François Jullien, Trattato dell’efficacia

"When China rules the world"

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Martin Jacques, When China rules the world

Michele Bonino: Buongiorno e benvenuti a questa nuova puntata di Cinque Libri. L'ospite di oggi è Alberto Bradanini, già Ambasciatore d'Italia a Pechino e Console Generale a Hong Kong. Parleremo dunque di Cina, ma prima di farlo vorrei ricordare l'obiettivo di Cinque Libri, che è quello di stimolare la lettura fornendo dei consigli, ma anche di spingere a ri-familiarizzare con l'oggetto “libro”. Abbiamo infatti qui con noi i libri di cui discuteremo: li sfoglieremo insieme, ne parleremo di fronte a loro. Su questo aspetto credo che la Cina possa darci alcune ispirazioni, perché se è vero che i Cinesi sono molto legati al mondo digitale, è anche vero che sono lettori accaniti, o perlomeno danno all’oggetto libro - da avere, da sfogliare, da consultare - un valore importante. Ricordo, ad esempio, le tante Book Cities in costruzione nelle città cinesi o anche la recente moda delle biblioteche/bed and breakfast nei luoghi di campagna più remoti, nei quali scappare e trascorrere un weekend in mezzo ai libri.

L'incontro di oggi, però, può avere anche un altro valore. Ormai molto spesso docenti, personale e studenti del Politecnico interagiscono con la Cina per ragioni di scambio su scienza e tecnologia, su ingegneria e architettura. Tuttavia, al Politecnico non abbiamo tra le nostre discipline competenze specifiche sulla lingua cinese, sulla storia della Cina, sulla sua economia, e quindi chiediamo spesso aiuto per conoscerle meglio, come facciamo oggi con l’Ambasciatore.

Prima di dedicarci, dunque, ai cinque libri protagonisti di questa puntata, riprendo un’immagine che hai utilizzato riferendoti alla Cina: quella del “bandolo della matassa”, ovvero della Cina come una matassa difficile da districare in termini di conoscenza, una matassa che non ha un solo bandolo da cui partire. Come a dire che siamo sempre costretti a scegliere un punto da cui prenderla, per poi iniziare a esplorarla: oggi lo facciamo a partire dai cinque libri che hai scelto per noi.

 

Alberto Bradanini: Grazie mille, caro Michele. Mi piace iniziare questo mio intervento con un'espressione di gratitudine: innanzitutto nei tuoi confronti, poi nei confronti del nostro comune amico Professor Juan Carlos De Martin e, beninteso, del Rettore del Politecnico di Torino e dei tanti professori che ho conosciuto negli anni trascorsi accanto a voi. Per me è un onore e insieme un compito difficile quello assegnatomi, perché accostarsi alla Cina avendo davanti l’immagine di una matassa intricata, secondo la tua evocazione, è quanto mai complesso: molti e diversi sono i punti di vista su un universo così intricato, ed io proverò a farlo sulla scorta di un’umile conoscenza che ho accumulato su questo paese, dove “sbarcai” molti anni fa. Un paese che mi ha catturato e avvolto attraverso una passione intellettuale, divenuta poi scientifica, storica e professionale. Un paese che ancora oggi resta per molti versi misterioso, anche se ho poi finito per trascorrervi dieci anni della mia vita, al servizio dell’Italia.

Sospinto dalla provocazione intellettuale di Juan Carlos De Martin - e sulla base di inclinazioni e scelte del tutto personali – ho suggerito alcuni libri con l’intento di coprire il terreno del pensiero classico cinese, la storia e l'attualità. Per iniziare, si potrebbe cercare di definire, in un dialogo ideale con voi ascoltatori, alcuni concetti su cui ragionare insieme per entrare in punta di piedi in questo mondo pieno di misteri.

La nozione di Cinesità potrebbe aiutarci a iniziare il percorso: cosa vuol dire essere cinesi? Rischiando di essere apodittici, poiché il tempo è sempre tiranno, Essere Cinesi significa intanto essere figli della più antica civiltà del pianeta, che risale almeno a 2.500 anni or sono, dunque più antica di quella occidentale storiograficamente documentata. L'unica altra civiltà, oltre a quella greco-romana, che è sopravvissuta al trascorrere dei secoli ed è giunta fino ai giorni nostri in buona salute – anzi, secondo alcuni in ottima salute – lasciando un'impronta profonda nella storia del mondo. La Cina è insieme un paese-continente, perché geograficamente uno dei più grandi al mondo, un paese-civiltà per le ragioni dette, e un paese-ideologia, perché governata da un partito che fonda le sue radici sull’ideologia marxista.

Cinesità vuol anche dire immergersi in una contraddizione dialettica, perché oggi le caratteristiche che la definiscono devono fare i conti con la modernità, con quello spirito di globalizzazione che mira a normalizzare in un magma uniforme nazioni, culture e costumi fino a ieri molto diversi tra loro. Sul piano astratto, dunque, la Cinesità assume insieme i profili storico, etico e ideologico di una sintesi prospettica tra le tre grandi tradizioni filosofico-religiose della Cina (ma il termine religione ha un senso diverso in Cina rispetto all'Occidente), vale a dire Taoismo, Confucianesimo e Buddismo (e prima ancora il culto degli antenati!) e quell’uomo nuovo che la più l’occidentale dottrina marxista-comunista promette sulla carta di edificare.

Le tre scuole di pensiero – che dovremmo invero chiamare famiglie di pensiero, poiché la Cinesità è impregnata dalla nozione di filiazione in ogni suo significato – sono, come noto, il Confucianesimo, concentrata sull’edificazione di una più avanzata organizzazione societaria e di comunità, il Buddismo, religione esogena non originata in Cina ma che, una volta entrata, ha lasciando un'impronta significativa e indelebile sul pensiero e la storia cinesi, e infine il Taoismo, di cui tutti indistintamente i cinesi sono impregnati . Mentre i Cinesi possono essere confuciani, buddisti o altro ancora, nessun cinese può dichiararsi estraneo all’impronta culturale taoista.

Con queste parole, abbiamo fatto ingresso nella presentazione dei primi due tra i cinque libri che presentiamo quest'oggi, e che illustrano rispettivamente il pensiero di Confucio e quello taoista. Come per i grandi iniziatori di religioni o di grandi correnti filosofiche del passato, nemmeno Confucio o Lao Tse hanno lasciato dei testi scritti alla loro morte, pur avendo originato le rispettive scuole di pensiero. Lo stesso è avvenuto a Gesù Cristo, che non ha scritto alcun vangelo, a Socrate, che conosciamo solo grazie a Platone, e a Buddha. Sono stati discepoli e successori a raccogliere il loro legato morale e filosofico in un compendio scritto che ha consentito al loro pensiero di sopravvivere nei secoli, fissandolo nella storia sino ai nostri giorni.

Dialoghi di Confucio, elaborati dai suoi discepoli, costituiscono d’altra parte una sintesi straordinaria del suo pensiero, la cui influenza è stata cruciale nella costruzione psicologica e dell’attitudine sociale dell’animus cinese, sia nell'età classica e pre-moderna sia nella contemporaneità. Con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, Mao Zedong inizia una battaglia dura contro lo spirito confuciano dei cinesi (a suo avviso il principale nemico da abbattere), basato sulla passività e la rassegnazione (quanto mai discutibile, va detto, nell’esegesi del pensiero confuciano), una battaglia che viene poi abbandonata dai suoi successori. Oggi il Partito ha bisogno di stabilità, e quindi l’ermeneutica confuciana, basata sulla conservazione dei valori e di “ciascuno al suo posto nella società” ben si conforma alle priorità del sistema.

Il legato principale di Confucio sono i fondamenti di una società utopica, una società armoniosa che tende all'idealità, all'interno della quale i conflitti possano essere gestiti in conformità con i bisogni essenziali dell'uomo e, quindi, nelle relazioni fondamentali dell'essere umano che vive in comunità. Tali relazioni sono quelle con i membri della propria famiglia, gli amici, la società circostante e beninteso l’autorità, che all’epoca coincideva con la figura immanente dell'imperatore. Nemmeno quest’ultima, tuttavia, poteva considerarsi svincolata dai doveri morali di sua pertinenza. Confucio è dunque il filosofo del dovere morale, non certo solo del conservatorismo, come invece è stato conveniente rappresentarlo da parte del potere in molti periodi della storia. Non solo Confucio affidava all'imperatore il dovere di assicurare il buon governo del popolo - in mancanza del quale persino la rivolta diventava legittima, persino la rivoluzione, diremmo oggi - ma richiamava anche l'impegno morale degli intellettuali (che allora erano i mandarini, i funzionari dello stato, gli unici a cui era consentito studiare) a vigilare sulla gestione dello stato e sul rispetto da parte dell'imperatore della norma morale non scritta di governare il paese in funzione dei bisogni del popolo. Una posizione questa tutt’altro che conservatrice, come si può ben capire.

Mentre Confucio si occupa della società, il buddismo si occupa invece del dolore dell'uomo. Buddha, uscendo dal palazzo reale, aveva scoperto l'esistenza del dolore, della vecchiaia e della morte, e aveva deciso di dedicare la sua vita e le sue energie a ridurre la sofferenza dell'uomo. Il buddismo ha fatto ingresso in Cina nel primo secolo d.C., ammorbidendo con i suoi insegnamenti la postura di durezza della Cinesità classica, soprattutto taoista, nei confronti dell’esistenza, chiamata a conformarsi alle implacabili leggi della natura.

Il taoismo si occupa dei grandi interrogativi dell'uomo: il senso dell'universo, il significato della vita, la postura da adottare davanti alla morte. Tale scuola di pensiero ha due genesi diverse: una di natura scientifica, sorta dal tentativo di scoprire il segreto dell’immortalità, un approccio alchemico, evidentemente prescientifico, ma che disegna quel percorso che sfocia poi nella scoperta della scienza. È infatti la manipolazione della materia, dei minerali vari, che consente di acquisire il metodo scientifico, un metodo non così dissimile, mutatis mutandis, da quello scoperto da Galileo Galilei qualche secolo più tardi. Il taoismo ha poi anche una genesi speculativa, vale a dire la riflessione sul senso della vita dell'uomo, e persino un profilo politico perché i suoi seguaci, critici del burocratismo feudale dei mandarini confuciani, avevano scelto di tenersi a distanza dalla società, scegliendo di vivere in comunità lontane, nelle foreste o sui monti, costruendo luoghi remoti di aggregazione mistica, tra cui statue gigantesche, di un fascino unico, visibili ancor’oggi in Cina.

Con il passare del tempo, mescolandosi con quello taoista, il pensiero buddista genera poi una visione più morbida del mondo e della natura, che proietta un’influenza umanizzante su taluni aspetti del taoismo che daranno poi origine alla corrente Chan, che passando in Giappone assumerà la denominazione di Buddismo Zen.

 

MB: Ecco, richiamo il primo libro di cui ci hai già raccontato, i Dialoghi di Confucio, una raccolta che risale al V secolo: il tempo di Platone, per intenderci. Invece qui c’è il libro di Henri Borel, Wu Wei, uno dei concetti fondamentali del taoismo, che risale al VI secolo a.C. A me interessa particolarmente quello che hai detto, ovvero che confucianesimo e taoismo nascono di fatto come filosofie, come modi di pensiero, per poi assurgere a religioni. Se andiamo a Pechino, due degli edifici principali del centro storico sono il Tempio di Confucio e il Tempio del Cielo, custodito dai taoisti, eppure, a differenza di come concepiamo noi le religioni, ovvero come alternative, qui c’è affinità e complementarietà. Ricordo che in uno dei miei primi viaggi in Cina -molto spaesato, come per tanti versi lo sono ancora ogni volta che ci torno - un collega mi disse: io mi sento confuciano in pubblico e taoista nel privato. Per dire come questi due modi di pensiero, uno rivolto alla società e l'altro all'agire individuale nei confronti della natura, alla fine si intreccino. Secondo te perché può essere interessante leggere questi due libri oggi, in particolare qui in Occidente?

 

AB: Mi sembra che tu abbia detto molto. È interessante notare che l’adesione filosofica della Cinesità al sincretismo consente l'appartenenza simultanea a diverse scuole di pensiero (o anche religioni, come diremmo noi). In Cina si può essere taoisti e insieme confuciani, buddisti, cristiani, musulmani. Non esiste, come in Occidente, l’esclusività della scelta perché il mondo, secondo tale profilo della Cinesità, è capace di accogliere qualsiasi aspetto della sensibilità e dei bisogni umani.

Il libro di Henri Borel qui suggerito - che presuppone la lettura del Tao Te Ching, il Libro della Via e della Virtù attribuito a Lao Tse, l'ideatore o sintetizzatore del pensiero taoista, che si perde invero nella notte dei tempi – costituisce a mio sommesso avviso un tentativo di illustrare il concetto centrale della concezione taoista del mondo. Tao, secondo l'accezione più accreditata, significa via, ovvero percorso. Tuttavia, per Henri Borel - studioso olandese vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo e profondo conoscitore dell’Oriente, dove aveva trascorso la maggior parte della sua vita – Tao non significa “via”, poiché tale concetto presuppone un luogo di partenza e insieme una direzione di marcia, ma non un punto di arrivo. A suo avviso - egli giunge a tale conclusione sulla scorta dei suoi studi sinologici e della lettura del testo originale - Tao deve invece intendersi come anima universale della natura, oppure semplicemente il “qi”, l'energia vitale, o semplicemente la natura, come si esprimerebbe Lucrezio. Quanto a me, ho cercato di leggervi un significato ancora diverso, persino poetico, al quale mi sembra di poter aderire in modo ancora più completo: il “Tao” sarebbe pertanto il respiro profondo dell'universo. Più che la “via” esso coinciderebbe con l'energia che chiamiamo respiro, o soffio, che consente all'universo di vivere, e all’uomo, al centro di questo universo, di avere coscienza di sé.

È dunque essenziale, per chi desidera avvicinarsi al pensiero cinese, studiare i Dialoghi di Confucio, il Tao Te Ching, insieme a questo libro breve ma profondo di Henri Borel, accompagnando tale lettura con un approfondimento del pensiero buddista, la cui letteratura è infinita. Completando il quadro, quando si affronta il tema della Cinesità classica, occorre talvolta astrarre dalla realtà della Cina odierna, che è una realtà ancor più complessa. Il passato non è stato cancellato dalla modernità, sarebbe erroneo affermarlo: eppure, inevitabilmente, il popolo cinese - che ha attraversato tragedie di ogni genere nel “secolo dell'umiliazione” dal 1848, inizio della prima guerra dell'oppio, al 1949, proclamazione della Repubblica Popolare di Cina - ha avuto un’evoluzione così turbolenta e accelerata che ha inciso profondamente sulla sua Cinesità. La sintesi di tale processo di trasformazione deve essere ancora compresa appieno dallo stesso popolo cinese.

 

MB: Ringraziandoti ancora per questa selezione, che credo sia stata non facile considerata la pluralità di possibili scelte, ricordo a tutti che, oltre a esserti occupato della Cina come diplomatico, lo hai fatto anche come studioso: qui al Politecnico, nel 2019, avevamo presentato il tuo ultimo libro, Oltre la Grande Muraglia. Rispetto alla scelta dei cinque libri di oggi, uno dei più trasversali mi sembra quello che la sinologa Anne Cheng - traduttrice in francese dei Dialoghi di Confucio - ha scritto nel 1997, poi pubblicato in due volumi in Italia dalla Piccola Biblioteca Einaudi. Mi sembra interessante riprenderlo perché affronta tutto quello che abbiamo detto, cioè il taoismo, il confucianesimo, l'accoglienza articolata e variegata del buddismo, arrivando però fino al Novecento, e quindi alla relazione di questa complessità di pensiero con il mondo occidentale. Hai qualche commento da proporci, a partire dal libro della Cheng, sull’incontro tra Occidente e Cina?

 

AB: Si è trattata - come dicevi tu poco fa - di una scelta personale, e dunque rischiosa: ogni giorno, in tutto il mondo, vengono pubblicati centinaia di libri sulla Cina, con un enorme accumulo di conoscenza, e talora anche di pseudo-conoscenza, che si materializza ovunque nel mondo sulla storia e l'attualità del gigante asiatico. Di conseguenza, la scelta di questi cinque libri non è che un momento introduttivo. L’indicazione di libri (facilmente reperibili in libreria) di geopolitica, economia o relazioni internazionali della Cina avrebbe giustificato una scelta diversa. Per tentare di comprendere un po’ gli avvenimenti economici o politici, i rapporti scientifici o la geopolitica, occorre banalmente partire dalle fondamenta. Se si costruisce una casa, non si può certo partire dal tetto. Ogni accostamento a temi complessi richiede tempo. Malauguratamente nella società contemporanea il tempo manca, si è immersi in una corsa perenne priva talora di ogni direzione: il tempo, invece, è la cornice indispensabile per acquisire conoscenza. Mentre Confucio afferma: “agire è facile, ma capire e conoscere non lo è affatto”, Anne Cheng sottolinea che l’interazione del mondo cinese con l'Occidente si può afferrare analizzando il rapporto tra parola e silenzio, tra vuoto e pieno, tra lo Yin e lo Yang. Nell’universo Cina prevale il non-detto, il reflusso, gli spazi deserti, mentre in Occidentale a primeggiare è stata la parola e anzi, a partire da un certo punto, essa è diventata persino terapeutica. Pensiamo a Freud o a Lacan, sebbene Lacan abbia sviluppato una nozione ancora diversa (e cito Lacan a proposito, perché a un certo momento della sua vita si era innamorato della Cina, entrando a far parte di quel gruppo di filosofi, studiosi, scienziati, politici ed economisti che a partire dal XVII secolo in Occidente hanno scoperto l’universo cinese, rimanendone affascinati senza nemmeno esserci mai stati).

Anne Cheng, dunque, nel suo libro sulla storia del pensiero cinese gioca con profondità su questi due concetti. Se in Occidente la parola è cruciale e può addirittura curare le nostre angosce, in Cina è consigliato evitarla: meglio il non-agire. “Wu Wei”, tuttavia (come il titolo del libro di Borel), non sta a indicare la passività, l’inazione davanti allo scorrere del tempo, quanto invece un non-fare che esprime attenzione massima nei confronti del corso naturale degli eventi, dell’energia della natura, che presuppone un'attività profonda e consapevole finalizzata al tentativo di accondiscendere ai bisogni che emergono dal rapporto biologico tra uomo e natura. Il silenzio, dice Confucio, è preferibile alla parola: chi sa parla e chi parla non sa, un paradosso che se applicato appieno escluderebbe anche questo nostro colloquio. Va comunque precisato che si parla qui di un sapere scoperto da altri, un sapere che abbiamo acquisito leggendo libri meravigliosi che ci parlano del fascino del pensiero cinese. Tutto ciò ci consente di gettare uno sguardo, seppure insufficiente, sulla formazione della psiche del cinese di oggi, nella comunità di appartenenza e nei confronti del potere.

Nella gestione della pandemia di Covid-19 si è visto come l'attitudine cinese sia diversa da quella occidentale. Alle misure draconiane sulla mobilità delle persone, decise dal governo di Pechino, è corrisposta una sostanziale adesione da parte del popolo, un’adesione che non si riscontra nella stessa misura in Occidente, dove l’intima accettazione di esse è basata essenzialmente sulla paura della malattia e della morte. In Cina, la corrispondenza tra governati e governanti fa parte di un processo dialettico, quale sintesi della storia etica e filosofica pregressa, tra il cittadino e l’autorità, in passato tra suddito e imperatore.

Si tratta di una sintesi visibile anche in altri ambiti della Cina contemporanea, che è riuscita a sconfiggere la povertà – alla quale sembrava per sempre condannata la sterminata moltitudine dei contadini cinesi, che fino a pochi decenni fa costituivano il 90 per cento della popolazione - attraverso un percorso di sacrificio: ovvero la capacità dei Cinesi di rinviare il soddisfacimento dei propri bisogni. L’accumulo di capitali e capacità si è poi trasformato in ricchezza, quel benessere che oggi emerge come un prodigio quando leggiamo le mirabolanti statistiche dei successi economici e sociali di un paese passato in pochi decenni dal Medioevo alla post-modernità. Le innate capacità e l’impegno dell'uomo cinese - sintesi di sincretismo etico, filosofico e ideologico, di attitudine positiva nei riguardi della collettività di appartenenza - sono state poi organizzate da una macchina efficiente come quella del Partito Comunista, guidato dallo straordinario acume politico di Deng Xiaoping. Se quest’ultimo amava ripetere, per mettere in guardia i suoi compagni, che “quando si aprono le finestre insieme all’aria entrano anche le mosche”, occorrerebbe aggiungere che “queste ultime possono anche uscire, non solo entrare”. Se dunque la Cina sarà costretta in futuro a diventare più occidentale di quanto possa immaginare, è altrettanto vero che anche il resto del mondo, davanti al dinamismo di un paese di un miliardo e mezzo di individui, dovrà accettare di diventare un po’ cinese, in analogia al percorso di noi occidentali che, sotto l’influenza economica e consumistica degli Stati Uniti, siamo diventati tutti un po’ americani.

 

MB: Con questo ti colleghi molto bene al quarto libro che hai selezionato, When China Rules the World di Martin Jacques: un saggio del 2009 che, in un momento ancora abbastanza precoce nel percorso di sviluppo della Cina, profetizza il ruolo nuovamente centrale del gigante asiatico sullo scacchiere geopolitico. Oggi, dodici anni dopo, ci troviamo nel bel mezzo di una contesa globale tra Stati Uniti e Cina. Ho parlato di “centralità”, perché credo sia questa l'ambizione della Cina: non un'ambizione egemonica, dunque, ma di centralità, che si richiama a quella che un tempo già aveva. Ricordo una tua conferenza in cui avevi mostrato il valore dell'economia cinese, di quella europea e di quella americana in diversi periodi di tempo: nel 1840 l'economia della Cina valeva ancora il doppio di quella dell'intera Europa; poi, in conseguenza a ciò che accadde nel cosiddetto “secolo dell’umiliazione”, la Cina è precipitata dal punto di vista economico. Martin Jacques, come altri, racconta proprio come quello che sta succedendo sia figlio di una volontà della Cina di tornare alla centralità che aveva sempre avuto. Vuoi raccontarci qualcosa su questo libro?

 

AB: Si tratta di un libro corposo, che illustra bene i passaggi cruciali della storia cinese degli ultimi due secoli e le tappe fondamentali che la Cina ha attraversato: non soltanto l’impatto con la modernità, dunque, il crollo dell'impero Qing nel 1911, ma prima ancora le guerre dell’oppio, l'aggressione da parte dell'Occidente affinché la Cina aprisse i commerci attraverso la politica criminale del traffico e consumo di oppio - che i britannici vietavano in Europa e in Gran Bretagna ma favorivano in India e Cina - affinché la bilancia commerciale tornasse in equilibrio, poiché in quei tempi esportava molto più di quanto importasse.

Con la prima e la seconda guerra dell'oppio, le Grandi Potenze di allora mettono un piede stabile in Cina, conquistano Hong Kong e strappano altre concessioni lungo la costa, obbligando la moribonda dinastia Qing ad aprirsi al mondo. Qualche sussulto di reazione non basta alla Cina dell’epoca per costruirsi un destino meno tragico. Diversamente dal Giappone che, riconoscendo la superiorità dell’Occidente nel campo della tecnologia e della scienza, ne acquisisce l’utilizzo, salvaguardando però la propria cultura, la Cina non ha questa forza e viene travolta. Insieme alla fine dell'impero, vengono travolte anche le istituzioni e la società. È così che prende avvio il processo di frantumazione della Cina e inizia la fase tragica dei signori della guerra, cui si sommano l’assenza di un governo centrale, il saccheggio di suolo cinese e l’invasione giapponese. A quel tempo, la destrutturazione cinese era spinta dagli interessi delle Grandi Potenze, per le quali un paese grande e unito rappresenta un pericolo oggettivo. Uno scenario che vediamo oggi riproposto nella contrapposizione tra Usa e Cina Popolare, che è diventato, suo malgrado, il paese che sfida i privilegi imperialisti americani con la sua dimensione ingombrante sotto il profilo politico, economico, militare.

Martin Jacques si occupa però anche di un altro aspetto, spesso dimenticato: il senso del riemergere della Cina negli ultimi decenni, a partire dalla vittoria di Mao Zedong sul partito nazionalista (Kuomintang) nella guerra civile scoppiata dopo la sconfitta giapponese (1946-‘49), deve collegarsi alla lotta contro il colonialismo prima e il neocolonialismo poi. Per conquistare una vera indipendenza, infatti, non basta assicurarsi la sovranità politica, perché a questa occorre aggiungere anche quella economica. Per completare il percorso, dunque, è stato necessario aggiungere ai traguardi di Mao i successi economici di Deng. L’opera è ora completa. Perché viviamo tempi mascherati, non dobbiamo pensare che il colonialismo sia stato sconfitto per sempre. La Cina è così sfuggita a politiche neocoloniali surrettizie, con effetti simili a quelle che hanno caratterizzato la storia della schiavitù e che sono ancora oggi diffuse in diversi paesi africani, del Sud America e altrove. Come rilevato da Martin Jacques nel suo libro, la Repubblica Popolare sin dalla sua fondazione ha temuto di venir risucchiata da questo destino. Secondo Mao Tse Tung, “a nessuno deve essere consentito dire alla Cina quel che deve fare”, “il tempo del colonialismo (o neocolonialismo) va archiviato una volta per tutte”. Crescita economica e sviluppo sociale vanno strettamente correlate e sintetizzate nella nozione di “indipendenza effettiva”.

È dunque Deng Xiaoping ad aggiungere la gamba fondamentale dell'indipendenza economica all'indipendenza politica, cardine della strategia di Mao Tse Tung. Con la politica di apertura e di riforma, la Cina mostra dunque la capacità di generare quelle risorse che le consentono di smarcarsi dalla condizione di vassallaggio che attanaglia molti paesi emergenti, solo apparentemente indipendenti. Ciò che irrita la potenza americana è il rischio che l’esempio cinese – già di per sé una sfida sistemica all’egemonia americana - possa diffondersi nel mondo, riducendo i privilegi dell’impero statunitense. La crescita della Cina s’inserisce nel tempo storico degli Stati Uniti, che è quello del declino (relativo, beninteso, e per ora solo politico-economico, non militare). Ciò ha generato quella che è ormai una vera e propria nuova guerra fredda, che tuttavia è stata dichiarata dagli Usa in uno scenario internazionale ben diverso rispetto a quello della prima guerra fredda.

Si tratta di aspetti complessi, non facilmente inquadrabili in poche battute. Il libro di Jacques, in questo senso, getta le fondamenta ideali per entrare in tali dinamiche ampliando lo sguardo con dovizia di dati e osservazioni acute per una migliore comprensione degli eventi, che raramente corrispondono a quelli imposti dall’odierna narrativa mediatica mistificatrice (giornali, televisioni). Una narrativa pregna di strumentalità ideologica, spesso venata da sinofobia, figlia di interessi di parte che comprimono la logica del compromesso, della convivenza e del progresso pacifico per tutti i popoli del mondo. Sul pianeta, v’è posto per tutti, purché sia rispettata la logica della mutua attenzione combattendo le tentazioni imperialistiche, sedendosi intorno al tavolo del negoziato con lo sguardo attento anche sulle ragioni dell’altro.

 

MB: Grazie. Prima di passare all'ultimo libro, volevo farti una domanda che tocca i temi della scienza e della tecnologia, che interessano particolarmente il nostro Politecnico. Tra i motivi che hanno in qualche modo decretato la caduta della Cina nell'Ottocento, una delle interpretazioni prevalenti è quella secondo cui la Cina non è riuscita a tenere il passo delle potenze occidentali dal punto di vista dello sviluppo tecnologico e scientifico. Com’è possibile, secondo te? Io ricordo un passo delle memorie del missionario gesuita Matteo Ricci (per tante cose un gigante nei rapporti di scambio con la Cina, che grazie a lui ha scoperto la geometria euclidea o la rappresentazione cartografica del mondo) in cui, tre secoli prima, scrive quanto fossero ingenui i Cinesi a ritenere che la Terra girasse intorno al sole, non rendendosi conto che nel campo dell'astronomia, come in molto altro, erano secoli avanti rispetto all’Occidente. Di fronte a due civiltà, che innovano e creano in parallelo un grande sviluppo scientifico, come è possibile che a un certo punto, quasi all'improvviso, alla metà dell’Ottocento la Cina accumuli tanto svantaggio?

 

AB: Come hai ben detto la Cina, ma anche l'India, sono stati per secoli le principali potenze economiche, e di sviluppo e organizzazione sociale. Nei nostri paesi siamo tuttora immersi in un’anacronistica dimensione culturale eurocentrica (o occidentale-centrica, perché sono gli Stati Uniti a rappresentare il centro dell’Occidente), a sua volta figlia di una patologia etnocentrica quanto mai ingiustificata. Fino alla caduta dell'impero Qing, i rapporti tra Cina e Occidente sono stati limitati e poco rilevanti. Certo, in Europa nel corso dei secoli sono esistiti studiosi (pochi) che hanno guardato alla Cina con ammirazione e interesse. Ripercorrendo a volo d’uccello i rapporti tra Cina e Occidente, essi prendono avvio lungo le vie della seta – percorsa da tempi remoti, persino al tempo dell’Impero Romano e forse addirittura prima: si trattava di strade che attraverso mare e terre consentivano lo scambio di merci e beni all'interno della massa continentale euro-asiatica. Siamo abituati a pensare a Europa e Asia come a due continenti divisi: in realtà si tratta di un solo continente, come ci mostra la carta geografica. Un tempo le distanze erano infinite. Oggi non è così.

Ciononostante, si tende a pensare che vi sia tuttora una cesura, qualche sorta di frontiera, tra le due parti di questo immenso continente. I rapporti commerciali risalgono dunque all’antichità remota. Tuttavia, nemmeno i commerci sviluppatisi nei secoli del nostro Medioevo hanno lasciato tracce significative. Semplificando un po’, occorre aspettare Marco Polo (che, secondo una corrente di pensiero, non sarebbe nemmeno arrivato davvero in Cina) per portare un po’ di Cina in Europa, e poi i gesuiti – il più noto tra essi, il maceratese Matteo Ricci – per portare un po’ di Occidente in Cina. Ma anche questo “po’ di Occidente” è stato invero un seme che è germogliato assai poco. In buona sostanza, Matteo Ricci ha tradotto alcuni libri occidentali in lingua cinese (Manuale di Epitteto e gli Elementi di Euclide), ma la sua attività e il suo pensiero non hanno generato veri cambiamenti o un’influenza scientifica che l’impero cinese abbia in qualche modo sfruttato.

I gesuiti volevano soprattutto convertire la Cina al Cristianesimo. Matteo Ricci in particolare aveva l’obiettivo di convertire l'imperatore, per poi lasciare a lui il compito di convertire il popolo cinese. Ricci è vissuto a Pechino, alla corte dell'imperatore, per nove anni (1601-1610), ma non è mai stato ammesso al cospetto dell'imperatore (secondo una certa storiografia, egli sarebbe stato ammesso una volta a un’udienza mentre l’Imperatore era nascosto dietro una tenda e Ricci parlava al trono vuoto). Tutti i gesuiti, e dunque anche Matteo Ricci, erano considerati e valutati quali uomini colti, di lettere o di scienza, capaci di portare beneficio alla Cina, ma non erano apprezzati come missionari, tant'è che i cinesi non si sono mai convertiti al Cristianesimo.

Anche dopo Matteo Ricci e i gesuiti, la sostanziale separazione tra Cina e Occidente continua. Si deve giungere alle guerre dell'oppio, con la Gran Bretagna - la più grande potenza marittima dell'epoca - che porta la guerra in Cina e la obbliga ad aprire i commerci. La Cina, che è stata sino ad allora uno dei paesi più ricchi ed evoluti al mondo, si avvia verso un declino che, come detto sopra, durerà circa un secolo. In Occidente, infatti, ha preso avvio la rivoluzione industriale, che in brevissimo tempo catapulta la ricchezza e il benessere degli europei, e poi degli americani, ai vertici del pianeta. È qui che si crea una frattura, risultato dell'incapacità del morente impero Qing di acquisire quelle tecnologie e capacità industriali che avrebbero potuto cambiare il corso della storia. Ed è così che la Cina rimarrà povera e ai margini della storia fino al 1949.

La situazione economica del popolo cinese, in realtà, non cambia nemmeno nel 1949, con la fondazione della Repubblica Popolare, perché Mao aveva centrato la sua azione politica sull’ideologia più che sullo sviluppo economico: per essere rossi bisognava essere poveri, solo essendo poveri si poteva sperare di essere considerati rossi. Una situazione che si chiude con la scomparsa di Mao, nel 1976. Dunque, la Cina rimane marginale per quasi duecento anni, dall'arrivo della prima missione inglese di McCartney (1792) fino ai primi anni ’80 del XIX secolo. Ma i libri di cui stiamo parlando, e molti altri beninteso, mostrano come la Cina stia recuperando il posto che un tempo occupava nella storia. Se tra dieci o quindici anni sarà di nuovo la prima economia al mondo, ciò non dovrebbe stupire: si tratta semplicemente del recupero di uno status che essa aveva perduto. Vale la pena ricordare che quando parliamo della Cina dell’impero Tang o dei Qing, parliamo pur sempre dello stesso paese. Se pensiamo invece all’Italia, quando parliamo di Marco Polo o di Matteo Ricci, ci riferiamo a illustri italiani, ma in realtà in quelle epoche l’Italia come stato nazionale non esisteva: esisteva Venezia, Genova o lo Stato Pontificio, ma non l’Italia.

 

MB: Proprio Marco Polo e Matteo Ricci, peraltro, sono gli unici due stranieri raffigurati nella grande parete del China Millennium Monument di Pechino, dove è rappresentato un millennio di storia cinese attraverso circa suoi 200 protagonisti. Da italiani, oggi sentiamo pur sempre una certa “responsabilità” nel pensare a loro come agli unici due stranieri ammessi in quella influente rappresentazione.

Passiamo ora al quinto libro che hai scelto, il Trattato dell'efficacia di François Jullien. Jullien è uno studioso della filosofia sia dell'antica Grecia che della Cina, e molta della sua opera è proprio incentrata sul confronto tra queste due civiltà. Nella nozione di efficacia di Jullien mi sembra interessante il fatto che lui porti il concetto del non agire - che citavi in riferimento al taoismo - a una chiave strategica: il non agire come attesa dell'opportunità (il libro, e le conferenze ricavate, hanno avuto un grande successo anche nell'ambito del management, della gestione d'impresa). In questo senso, mi sembra che un riferimento chiaro di Jullien sia L’arte della guerra di Sun Tzu, secondo cui il miglior generale è quello che fa scendere in campo le sue truppe quando sa di aver già vinto. Jullien sviluppa dunque un concetto di efficacia decisamente diverso rispetto a quello che abbiamo in Occidente.

 

AB: È proprio così. Direi che se guardiamo in modo onesto alla scena politica e sociale del nostro continente, la nozione che colpisce immediatamente la nostra fantasia è forse quella di confusione: non riusciamo a capire ciò che succede davvero. E insieme a confusione potremmo forse aggiungerne un’altra, impotenza. Se anche avessimo il potere necessario, non sapremmo dove mettere le mani, da dove cominciare a ricomporre il puzzle. La fitta coltre di nebbia nella quale siamo immersi c’impedisce di individuare un percorso di cambiamento, di riorganizzazione di una società basata su valori condivisi e collettivi. Sembra non esserci un’alternativa a quello che viviamo. Anzi, sembra ci venga imposta la nozione stessa di assenza di alternativa: Margaret Thatcher affermava addirittura che non esiste la società, ma solo l’individuo.

Ecco, in Cina non è così, laggiù non c'è confusione e tantomeno impotenza. In Cina vi è un'idea di società. Certo, vi sono contraddizioni, aspetti oscuri e punti interrogativi cui il Partito Comunista che governa il paese non ha dato risposta, ma la Cina ha una direzione di marcia. Ad essa si applica dunque la duplice nozione di efficacia ed efficienza - a seconda che l’enfasi sia messa sui fini o sui mezzi. Esattamente quello che manca al nostro Paese, se si vuole. Se dovessimo, invece, accostare un concetto alla conduzione economica, sociale, direi assiologica, del nostro Paese, non utilizzeremmo certo il termine efficacia o efficienza, perché - senza essere troppo pessimisti - l’Italia ci appare una nave alla deriva. Ecco, tornando alla Cina, efficacia ed efficienza significano una cosa forse banale, ma che fa la differenza. Laggiù un fatto politico è frutto di una decisione: il governo o il Partito sono intervenuti generando un cambiamento, anche se non sempre quello giusto, perché il paese ha una guida (sulla scena degli ultimi 40 anni, del resto, non va dimenticato che la Cina è passata da un reddito pro-capite di 164 dollari nel 1978 a quello di oltre 11 mila dollari, nel 2021).

Non sono mancati errori ed omissioni, non si può certo negare. Basti pensare ai danni profondi all'ambiente, all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dei suoli. Una politica devastante a cui il governo cerca ora di porre qualche rimedio, sebbene alcuni danni siano rimediabili solo nel lungo periodo. Qualcuno afferma che anche in Occidente, al tempo della rivoluzione industriale e anche dopo, lo sviluppo ha richiesto il suo prezzo, danni simili e altrettanto profondi, materiali e morali, costringendo bambini di pochi anni a lavorare, per sopravvivere, dieci o quattordici ore al giorno, come testimoniato da Marx nel Capitale. Tutto ciò è dimenticato. D’altronde, come diceva Mao, se la rivoluzione non è un pranzo di gala, ebbene nemmeno l'uscita dal sottosviluppo è un pranzo di gala, perché sconfiggere la povertà, la realtà endemica della Cina storica (compresa l’era di Mao Tse Tung, durante la quale non sono mancati persino fenomeni di cannibalismo) e giungere al benessere ha i suoi costi.

La Cina – che può oggi contare su infrastrutture moderne che non esistono nemmeno nei più avanzati paesi scandinavi o in America - è ormai un paese ai vertici dello sviluppo tecnologico e industriale, lanciato alla conquista dello spazio, della più grande stazione spaziale mai concepita, ed è solo un altro esempio. Ma tutto ciò, ancora una volta, ha avuto i suoi costi, umani e ambientali.

Insomma, senza andare oltre per carenza di tempo, la Cina odierna è un paese in cui la maggioranza dei cittadini è grata al Partito per aver creato quel benessere di cui gode per la prima volta. Il Partito Comunista Cinese ha ancora difficoltà a venire a patti con la nozione di “libertà”, che nelle nazioni occidentali è considerata irrinunciabile – e che deve considerarsi tale anche per lo sviluppo sociale e umano dei cittadini cinesi. Tuttavia, quando si parla di libertà e diritti umani, occorre non applicare il doppio standard, non dimenticare che il primo diritto umano è quello alla vita e infine che accanto ai diritti di parola o di assemblea la nozione neoliberista americana associa il diritto alla proprietà privata, per di più senza restrizioni (su cui si basa il corporativismo privato che domina il sistema economico e politico statunitense) e qui la strumentalità della nozione è quanto mai evidente.

Resta la circostanza che il Partito Comunista Cinese dovrà fare i conti prima o poi con la nozione di libertà, quella corretta. E lo farà gradualmente, tenendo conto della necessità di salvaguardare la stabilità del paese e tenendo fuori dalla porta il tentativo del capitalismo americano-centrico di “normalizzare” la Cina. Tutti questi aspetti fanno da sfondo al libro di François Jullien, il quale, oltre al Trattato dell'efficacia, ha scritto diversi altri saggi che offrono una splendida chiave di lettura del comportamento cinese – e dunque per riprendere il concetto d’esordio, della Cinesità - davanti alla modernità. Per capire cosa succede all'economia cinese, quali sono i rapporti tra Cina e Occidente, Europa e Italia comprese, considero dunque che l’insieme di questi cinque libri possono costituire un’ottima base d’avvio.

 

MB: Ti ringrazio molto per il percorso fatto attraverso questi cinque libri che, ricordo, sono tutti disponibili nelle biblioteche del Politecnico. E speriamo di poterli mettere presto anche in valigia, non appena sarà di nuovo possibile viaggiare verso la Cina.