Oggetti, comunicazione e ambiente: il design e il suo contesto | Raimonda Riccini

Chi è Raimonda Riccini

Raimonda Riccini

Professoressa ordinaria all’Università Iuav di Venezia, è stata responsabile del dottorato in Scienze del design (2012-21). Alla Scuola di dottorato Iuav avvia il Laboratorio di scrittura, fonda Bembo Officina editoriale, di cui è direttrice, e il Forum “FRID. Fare ricerca in design”, iniziativa di coordinamento dei dottorati italiani di design. Co-fondatrice e past President dell’Associazione italiana storici del design, fonda e dirige la rivista scientifica "AIS/Design. Storia e ricerche” (2013-21); è co-fondatrice della Società Italiana di Design SID, di cui è Presidente per il mandato 2020-24. Storica di formazione, studia gli aspetti teorici del design in relazione alla cultura tecnologica e ai processi di socializzazione delle tecnologie che hanno al centro il corpo e la teoria del comfort. Ha approfondito tematiche legate al pensiero di Tomás Maldonado, di cui è stata allieva e collaboratrice: formazione del design, rapporto tra avanguardie e design, questione ambientale. Di Maldonado ha curato gli scritti sul Bauhaus (2019) e la riedizione de La speranza progettuale (2022).

“La speranza progettuale”

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La speranza progettuale

“Fenomenologia del tostapane”

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Fenomenologia del tostapane

“Futuro artigiano”

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Futuro artigiano

“Abecedario. La grafica del Novecento”

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Abecedario

“La quarta rivoluzione”

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La quarta rivoluzione

Prof. Claudio Germak (CG)
Benvenuti alla rubrica “Cinque Libri” del Politecnico di Torino, che consente di capire che cosa - molte volte - c'è dentro e dietro un argomento o una cultura specifica. Oggi parliamo di design. Il design è una disciplina nota, che però opera a scale e con campi diversi. Mentre conosciamo bene il prodotto della comunicazione e il prodotto d'uso, sia nelle forme analogiche che in quelle digitali – tutti hanno un po’ questo sentore e apprezzamento per il design -, sappiamo invece molto meno di altre attività che il design fa, ad esempio nel campo dei servizi, del progetto dei servizi: pensiamo oggi a una app digitale che è stata progettata, sin dalla sua interfaccia, per organizzare un certo tipo di servizio che viene rivolto agli utilizzatori. Sappiamo ancor meno del fatto che il design si occupa anche dei processi, e quindi di entrare all'interno, per esempio, della produzione seriale, orientandone i metodi verso la sostenibilità, curandone i materiali, cercando di diminuire gli scarti, il consumo stesso di energia. Infine, abbiamo il design thinking, che è l'ultima nuova tendenza, l'ultima nuova strada del design, che letteralmente significa “pensare designer”, cioè pensare come un designer fa quando progetta dei prodotti, cioè in modo prestazionale ma anche olistico, cercando di tenere insieme i pezzi. E questa è diventata una pratica a cui fanno riferimento organizzazione e istituzioni quando hanno a che fare con delle problematiche o dei progetti complessi. Bene, ne parliamo con Raimonda Riccini, che è una studiosa e accademica del design. Ha lavorato fino al 2001 al Politecnico di Milano, poi si è trasferita con un gruppo importante di ricercatori e di docenti all'Università IUAV di Venezia. Lì ha scritto e ha fatto delle cose di valore, e tra le cose più importanti ci sono l’aver fondato e anche diretto come presidente la Società Italiana degli Storici del Design, l’aver creato un appuntamento di successo, a cadenza biennale, che si intitola FRID - Fare ricerca in design, che coinvolge tutti i dottorandi italiani di design, e il ricoprire oggi la carica di Presidente di SID - Società Italiana (scientifica, aggiungo io) di Design. Prima di iniziare il racconto dei libri vorrei porre a Raimonda una domanda su quello che ho appena introdotto: rispetto al recente passato del design, cioè 20-30 anni da qui ad allora, è il design che è cambiato o è la società che, così velocemente, ha cambiato le sue esigenze?

Prof.ssa Raimonda Riccini (RR)
Grazie a Claudio per la domanda, che mi permette di introdurre questa professione, quest'attività molto nota superficialmente - anche i media ne parlano molto spesso - ma appunto poco nota nelle sue articolazioni. Io sono convinta che il design sia una attività, una professionalità non autonoma: è una professionalità, è un'attività strettamente collegata con la società, con lo sviluppo dell'innovazione tecnologica, con i cambiamenti dell'economia e, appunto, con lo sviluppo dei bisogni sociali e delle nuove esigenze che emergono dalla società. Questo rapporto è un rapporto straordinariamente complesso e credo che i libri che ho scelto per oggi siano proprio lì a testimoniare questa complessità. Il design non è soltanto, come all'inizio, il progetto di oggetti per il mercato, ma a partire appunto dai primi anni del Novecento ha cominciato ad articolarsi (e lo vedremo con degli esempi) in maniera molto ricca, a partire per esempio da tutto il sistema della comunicazione, a partire da, appunto, un sistema di servizi che, a mano a mano che il mercato diventava più esigente si sono sviluppati attorno ai prodotti. Oggi, lo sappiamo, non c'è un prodotto che non venga fornito senza un servizio. Addirittura, in questa logica dell'economia circolare ci sono grandi aziende che stanno sperimentando l'idea non più di vendere il prodotto, e poi di vendere un servizio, come per esempio la manutenzione, ma addirittura di vendere il servizio senza vendere il prodotto. Questo è molto importante perché sappiamo che, nell'attuale congiuntura, le questioni ambientali sono fondamentali, quindi sono fondamentali le questioni che orientano il consumatore a modificare le proprie abitudini d'uso. Senza questo cambiamento sarà molto difficile alleggerire l'impatto degli oggetti sull'ambiente. Allora, da questo punto di vista, l'idea di passare dal possesso al consumo di un oggetto, di un sistema, diventa fondamentale, per cui non si vende più la lampadina, la lampada, la struttura illuminotecnica, ma si vende il servizio nell'illuminazione, si vende la luce.

CG
Esatto. Il design è una disciplina che vive in simbiosi con i cambiamenti della società e che ambisce anche a essere una speranza progettuale. Dico questo perché “La speranza progettuale” è proprio il titolo del primo libro scritto da Tomás Maldonado nel 1970, edito poi da Feltrinelli. Maldonado, classe 1922, che purtroppo si è spento a Milano nel 2018, è un argentino di nascita ma pienamente cosmopolita, ha poliedrici interessi nel campo delle arti, della letteratura, dell'architettura, del design e anche della politica progressista. Forse, e lo dico per non fare torto a nessuno, è il più importante innovatore teorico, non tecnico, nel settore del design. Ed è un anticipatore, per il fatto che oggi il design contemporaneo ha numerosissimi indirizzi. Questo libro di Maldonado esce nel 1970, quindi due anni prima del rapporto del MIT “The Limits to Growth”, che è stato un altro grande passo miliare della teoria contemporanea sull'andamento dei cambiamenti sociali. Si potrebbe anche dire che, in qualche modo, “La speranza progettuale” anticipa questo rapporto. Lo chiediamo a te che, recentemente, sei stata anche l’autrice, insieme al professor Medardo Chiapponi, di una rilettura di questa importante opera.

RR
Sì, indubbiamente, fra tutti i libri che avrei potuto scegliere, questo certamente non poteva mancare. Sugli altri sono stata più incerta, ma questo è sicuramente un libro fondante. E lo è da moltissimi punti di vista, non soltanto per il design come professione, ma proprio per un certo atteggiamento progettuale al quale Maldonado si richiama continuamente. Quando per la prima volta esce questo libro - in italiano e, in edizioni successive, anche in tutte le altre lingue: dall'inglese allo spagnolo, dal tedesco al francese - siamo alla fine di un decennio che ha discusso in maniera straordinariamente vivace e vitale - in tutti i paesi:  dall'Europa agli Stati Uniti, dal Giappone al Sudamerica - delle questioni che emergevano in quel momento, e anzi diventavano sempre più evidenti, e cioè i risultati e gli impatti che il modello di sviluppo economico e del consumo capitalistico stava inducendo sulla natura e sulle popolazioni. Per esempio, c'era tutto il rapporto fra il Nord e il Sud del mondo, gli squilibri nello sviluppo, e soprattutto c'erano - sullo sfondo - la contestazione giovanile e la guerra del Vietnam, che sono stati due momenti veramente cruciali in tutto questo dibattito rispetto al ruolo del progetto nel mondo contemporaneo. Questo decennio si conclude, e Maldonado scrive questo libro ringraziando i giovani contestatori che, lui dice, ci hanno svegliato da un lungo torpore. Questa mi pare essere la prima nota di attualità straordinaria del libro, perché oggi si sta ripetendo in qualche modo qualcosa di analogo con i giovani che stanno cercando, a loro modo naturalmente, di risvegliarci da questo torpore. Eppure, ora come allora, la reazione dei centri decisionali, come dice Maldonado nel libro, non è all'altezza della situazione. Quindi il libro diventa un accorato appello sia ai giovani contestatori, ma anche alle istituzioni pubbliche, ad affrontare subito i problemi ambientali che già erano veramente imponenti, ad affrontarli subito da un punto di vista della progettazione. Un atteggiamento di speranza progettuale, quindi, ma anche un invito politico molto forte, molto serio ad affrontare alcune questioni specifiche. Se leggerete questo libro vi accorgerete, per esempio, che ci sono degli aspetti che anticipano in modo straordinario alcuni temi di cui si discute ancora oggi. Per esempio, Maldonado parla in un lungo capitolo della questione dei rifiuti, di quelle “popolazioni” che si stanno affiancando a quelle umane e che sono le “popolazioni” dei residui chimici, dei rifiuti materiali del mondo capitalistico, del modello di consumo di quel mondo, ponendo l'accento sul fatto che quello dei rifiuti potrà diventare uno dei problemi cruciali della società del futuro. E, in effetti, noi vediamo che questo è avvenuto. Così come, sempre dal punto di vista dell'anticipazione, c'è un capitolo che parla di de-urbanizzazione e di de-localizzazione del lavoro, cioè parla di come ci fossero già allora alcune ipotesi per alleggerire il traffico, e quindi l'inquinamento da traffico negli Stati Uniti, in particolare a Los Angeles: soluzioni che intendevano portare il lavoro a casa. I computer cominciavano a essere una presenza importante, e questo fa sì che Maldonado possa argomentare, come argomentiamo oggi, dei vantaggi ma anche dei problemi che tutto questo comporta, cioè che l'isolamento individuale e la de-socializzazione possono indurre dei problemi sociali importanti. Quindi, come vedete, c'è questo tema dell’anticipazione. Ma io credo che il libro non sia importante solo per questo. Lo è anche per questo, ma io credo che sia importante principalmente perché pone al centro dell'attenzione il design in senso lato, in questo caso come progetto. Perché è vero che il design cambia - lo abbiamo detto prima - ma una cosa che cambia, e che è cambiata molto, è proprio la parola design, che si è trasformata, si è allargata a dismisura. E questo, naturalmente, deriva dal fatto che design significa progetto. In questo libro il design è, appunto, il progetto, la progettualità in senso lato: questo libro colloca il design, quindi la professionalità e l'attività di cui stiamo parlando oggi, all'interno di un contesto, ovvero in relazione con altre attività progettuali, come l'urbanistica, la pianificazione, l'architettura, che dovevano contribuire tutte insieme a risolvere problemi complessi, problemi di tipo sistemico. Quindi l'idea di rifiutare il design come attività che produce soltanto oggetti, magari anche straordinariamente importanti, esemplari, è una prospettiva fondamentale per un’attività che vuole pensare di affrontare seriamente i problemi progettuali della società contemporanea, di allora e di oggi. L'idea di un design sistemico, che si colloca nelle reti, che non può arrogarsi, diciamo così, il diritto di lavorare da solo, è quindi già contenuta in questo libro. Poi, naturalmente, ci sono pezzi di design che hanno tutta la legittimità di esistere, ma il design a cui si rivolge Maldonado è un design che entra fortemente nelle dinamiche dell'innovazione sociale. Perché non c'è sostenibilità economica e ambientale che non sia anche una sostenibilità sociale. Dunque il design è come un elemento che sta in mezzo a questa relazione tra la tecnologia, l'economia, la società, gli esseri umani, le loro esigenze, i loro bisogni. Questo credo che sia uno dei messaggi più importanti che è contenuto in questo libro e che lo rende così profondamente attuale. Io penso che se noi, oggi, vediamo il design come lo abbiamo descritto all’inizio, come un’attività che prenderà sempre più piede nella società, allora io credo che questo debba essere accompagnato da una speranza progettuale, come sostiene Maldonado, cioè da una finalizzazione di questo allargamento, di questa importanza del design: un richiamo all'impegno politico in senso alto, di agire con piena consapevolezza di questi problemi e della grande arma che il design può essere in mano ai decisori politici.

CG
Io trovo che Tomás Maldonado abbia lasciato alla nostra generazione, ma anche alle generazioni future, non solo una visione dell'innovazione in senso lato, quindi tecnologica e soprattutto sociale, ma anche una metodologia di approccio, una metodologia olistica, un'attenzione che oggi viene riconosciuta alle discipline progettuali che entrano in questa grande parola che le accomuna, che è il design, e che è riconosciuta proprio perché non lascia nessun pezzo da parte, ed è sempre concentrata su una visione globalizzante di quello che sta facendo. A me ha molto interessato molto l'accenno che facevi prima agli oggetti feticcio, di cui anche Tomás Maldonado parla. Perché c'è un altro autore, Harvey Molotch - quello del secondo libro che ci introdurrai -, che ha scritto “Fenomenologia del tostapane”. Il sottotitolo è “Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono”, edito da Cortina Milano nel 2005. Molotch, classe 1940, è un sociologo americano che attualmente insegna alla New York University e che qui ci spiega in modo mirabile quali sono le relazioni nascoste, che lui chiama proprio fenomenologiche, che abbiamo con gli oggetti, talora di ammirazione, di empatia, talora quasi di venerazione.

RR
Sì, il libro di Molotch, a mio parere, è un esempio straordinario di come si possa costruire questa rete sistemica complessa che sta attorno agli oggetti, partendo da un oggetto singolo. Questo è un meccanismo di analisi molto interessante. Ovviamente, Molotch fa questa operazione dal punto di vista di un sociologo e, come già dicevo all'inizio, la difficoltà anche di trovare dei libri che potessero restituire la complessità del design ha fatto sì che abbia deciso di pescare dei libri anche al di fuori del mondo del design. Dicevo, Molotch fa questa operazione con l'occhio sociologico e quindi sceglie questo oggetto che, dal punto di vista culturale, direi antropologico, è per gli americani qualcosa di simile a quello che per noi italiani è la moka: un oggetto che, nel mondo anglosassone, compare sin dal mattino, che apre e accompagna la società durante tutta la giornata. Quindi, diciamo da un punto di vista simbolico, il tostapane è un oggetto molto significativo, al pari proprio della moka per noi, ma possiamo anche divertirci a immaginare altri oggetti.

CG
… sì, bollitori, caffettiere, tostapane, che sono diventati anche oggetti del grande design “paludato”, cioè quello dei nostri maestri, così come li chiamiamo in Italia, dei Castiglioni, dei Gae Aulenti e degli innumerevoli bollitori della premiata azienda Alessi.

RR
Esatto. Questo dimostra come anche intorno a un oggetto banale della vita quotidiana come il tostapane possa costruirsi questa idea un po’ mitico-antropologica. La cosa interessante che fa Molotch, però, è quella di intrecciare le sue competenze di sociologo con quelle dell'analista di design, cioè si serve continuamente di nozioni, idee, esempi che vengono dal mondo del design: perché gli oggetti diventano quelli che sono proprio grazie al fatto che il designer è in grado di combinare, anche in un singolo oggetto, i valori, le innovazioni tecnologiche, il significato culturale, di saperlo trasformare in una forma. E mi ha sempre colpito il fatto che il primo capitolo di questo libro parla dei professionisti, cioè parla dei designer, anche senza essere un libro sul design. Questo mi ha sempre molto colpito. Molotch racconta una cosa molto interessante per il mondo del design, ovvero conferma - anche dal punto di vista di un americano, quindi di una società che ha incontrato il disegno industriale molto prima di noi – che, in realtà, la professione del designer e il design hanno molto faticato a trovare una loro identità e a collocarsi nella società in maniera autonoma rispetto ad altre figure progettuali. Cita due dati piuttosto significativi, e cioè il fatto che ancora nel 1999 un ingegnere guadagnava quasi il doppio di quanto guadagnasse un designer, e che solo nel 1995 i designer entrano come categoria nelle varie categorizzazioni dei lavori negli Stati Uniti. È una professione che ha fatto fatica a essere riconosciuta nella sua importanza. E Molotch spiega anche il perché: c'è sempre stata l'idea che il designer sia una sorta di cosmetico, e il design un'attività di semplice abbellimento dei prodotti che arriva solo alla fine del processo. C'è voluto molto tempo per far capire, anche alle imprese, che il designer deve invece entrare a far parte dall'inizio del processo per partecipare alla costruzione di un prodotto con tutte le competenze che il design può portare, competenze di orchestrazione di tanti fattori diversi.

CG
Infatti nel design thinking, che oggi guida l’organizzazione di molte aziende e istituzioni, si dice che se vuoi progettare qualcosa è bene farti sempre affiancare da un designer, perché ha una forma mentis che gli (o le) permette di approcciare in modo corretto problematiche complesse.

RR
Esatto. Questa metafora del designer come direttore d'orchestra è una metafora - adottata da diversi studiosi, come ad esempio Giovanni Anceschi - che vi fa capire come il modo di pensare del designer può essere risolutivo in situazioni complesse, nelle quali bisogna far convivere diverse esigenze. Esigenze - per esempio in una azienda o in una istituzione - di tipo tecnico, economico, di come funziona il sistema produttivo, di come si vuole comunicare all'esterno un nuovo prodotto. Insomma tutta una serie di elementi che concorrono alla formazione di che cosa? Della forma del prodotto. Allora qui c'è un altro aspetto interessante. Molotch, nel capitolo successivo, continua parlando di forma e funzione, che è una delle coppie che ha accompagnato tutta la cultura del design del Novecento e tutto il dibattito sul design: il rapporto tra forma e funzione. Quindi, ancora una volta, vedete che il design dentro il mondo della sociologia ha una funzione straordinariamente utile, di tipo teorico. Ma cosa cos'è questa forma a cui si deve dedicare il designer? Qui devo ritornare ancora una volta, sempre per dar conto della complessità di questa attività, a Tomás Maldonado e alla sua definizione di disegno industriale, anche questa dei primi anni Settanta, nella quale lui dice: è vero, il designer deve realizzare la forma di un prodotto, ma questa forma non è una forma aprioristica e autonoma, che sta nella sua testa come può stare nella testa di un artista, ma è una forma che deriva dal coordinamento di tutta una serie di fattori che, appunto, sono economici, produttivi, relazionali, simbolici, estetici, distributivi. Una cosa di cui non si parla mai: il ruolo della distribuzione nello sviluppo del design è importantissimo.

CG
Infatti, noi oggi parliamo di forma nel design - in inglese, per esempio - non attraverso l'appellativo shape, che sarebbe il design della forma delle superfici e dei volumi, della decorazione, ma attraverso l'appellativo form, cioè l'identità. Gli anglosassoni utilizzano form per significare anche un complesso identitario, fatto da certi valori, ai quali si aggiungono naturalmente anche altri valori, più materiali, quelli della shape, appunto, dei colori, dell'uso della materia. È una forma, però, che ha significato, che trasmette un’identità. Ecco, c'è un terzo libro che hai scelto, e che ho trovato molto interessante, un libro che apre una nuova parentesi del design. Accanto al disegno cosiddetto industriale esistono anche altre forme di progettazione, che sono invece quelle della cultura materiale, cioè dell'artigianato. C'è un libro molto fortunato, con cinque edizioni dal 2011, che è stato scritto in forma molto divulgativa e che ha avuto una valanga di citazioni da parte della pubblicistica scientifica. Il libro è “Futuro artigiano. L'innovazione nelle mani degli italiani”, scritto da Stefano Micelli, che non è un designer ma è un economista, insegna economia della gestione a Cà Foscari. Micelli, in questo libro, descrive e documenta i casi di successo, molti dei quali sconosciuti (ed esempio quello dell'artigianato nei prodotti Fendi) che riguardano proprio la cultura materiale in Italia, quella della tradizione, degli aspetti noti dell'artigianato di classe, ma anche quella meno nota e, poi, quella del futuro, ovvero sia l'artigianato digitale, che è uno strumento cult oggi che si avvia a produrre valore economico. Ecco perché è stato studiato da Stefano Micelli, che è un economista.

RR
Sì, Stefano Micelli è un economista che ha sempre avuto una grande attenzione per lo sviluppo della piccola e media impresa italiana, l’ha studiata in maniera molto approfondita e lo continua a fare ancora oggi partecipando attivamente ai dibattiti su questo tema. Sì, il libro l'ho scelto perché effettivamente, pur non essendo un designer, Micelli mette ancora una volta l'accento su uno dei temi cruciali per il mondo del design, in particolare del design italiano, ma non soltanto: l’importanza dell’artigianalità (di cui l’Italia - è bene sfatare questo mito - non detiene il monopolio, essendo un tema molto discusso a livello globale). Micelli pone l'accento su questo aspetto specifico e lo pone in un momento, nel 2011, in cui si manifestava ancora la crisi del lavoro in seguito alla grande crisi del 2008 che ha riconfigurato tutte le dinamiche che la globalizzazione aveva fin lì indicato: il rapporto fra il globale e il locale, le comunità, i distretti italiani che, lo sapete, sono una delle ossature più resistenti e consistenti della nostra economia, del nostro saper fare e del nostro design. Quindi una rimessa in discussione di tutti questi rapporti fra il locale e il globale, che fanno porre a Micelli l'accento proprio sulle caratteristiche specifiche della nostra artigianalità. Se notate, in “Futuro artigiano”, non viene utilizzato il termine “artigianato”. Perché, in fondo, questo libro non si occupa soltanto del pur importante e pregevolissimo artigianato, quello legato alle tradizioni manuali che stanno però al di fuori dell’economia. In “Futuro artigiano” il termine artigiano è utilizzato come un aggettivo. Perché? Perché, appunto, il concetto di artigianato che c'è in questo libro è un concetto più articolato rispetto a quello originario cui siamo abituati. L'ipotesi di questo libro è che il nostro sistema industriale ha una potenzialità enorme, rispetto anche al tema della crisi di allora, perché la nostra manifattura utilizza ancora in maniera molto forte le competenze artigiane che appartengono alla grande tradizione secolare del nostro paese e che sono ancora oggi molto vive. L’idea, come dicevo, non è però quella di un artigianato chiuso, che guarda al passato e che riproduce il passato, ma è un artigianato che in qualche modo richiama quello delineato in un altro libro molto importante su questi stesso tema, “L’uomo artigiano” di Richard Sennett, con il termine “artigiano” che anche qui è utilizzato come aggettivo e non come sostantivo. Perché che cos'è l'artigiano per Micelli, che cita questo libro di Sennett? L'artigiano è qualcosa che ha a che fare con una serie di qualità: per esempio, la passione per il lavoro, il continuo esercizio per migliorare il proprio lavoro, l'approfondimento delle tecniche, l'approfondimento dei materiali e il radicamento nella comunità. Quindi l'idea di artigiano che emerge da questi due libri è un'idea che può essere applicata, oggi, anche a settori - come quello industriale - che apparentemente sono lontani dal concetto di artigianalità. In realtà, tutte queste caratteristiche, che sono tipiche della tradizione artigiana italiana, sono state in qualche modo assunte anche dalle piccole e medie imprese, che hanno mantenuto uno stretto rapporto con questa tradizione e che, proprio attraverso questa stretta tradizione, si sono potute collocare in maniera molto competitiva a livello internazionale, diventando in alcuni casi, come nel caso della moda, del fashion design, addirittura le prime al mondo. Non a caso tu citavi Fendi, io potrei citare Gucci e altri, tutta una serie di esempi che Micelli fa guardando proprio al sistema della moda che, forse più di tutti, ha saputo combinare al meglio questa attività di industrializzazione di alcuni segmenti e il mantenimento di questa grande capacità artigianale. Ovviamente questo libro, collocato dieci anni fa, oggi andrebbe probabilmente riscritto. Noi sappiamo che oggi sono di nuovo cambiate quelle condizioni, però in “Futuro artigiano” - come dicevi tu - era già indicata una strada di trasformazione di questo artigianato, che si incontrava già allora con il digitale. Il digitale, e lo vedremo anche negli ultimi due libri che ho portato, rappresenta un po’ la chiave di volta, perché ha davvero contribuito ad accelerare le trasformazioni nel mondo del design, intervenendo a diversi livelli. Nel caso dell'artigianato, il digitale è sicuramente qualcosa che ha aperto nuove prospettive anche dal punto di vista progettuale, perché ovviamente, quando cambiano gli strumenti cambia anche il modo di usare, di pensare un progetto. Avere la cosiddetta stampante 3D induce delle profonde modifiche al modo di pensare il progetto di un oggetto. Se prima, per esempio, il disegno - nel senso classico del termine - diventava la prima tappa, ora, con le nuove tecnologie digitali, probabilmente la prima tappa è lo studio del software che può guidare un certo tipo di progetto. La capacità, italiana in particolare, di intercettare anche a livello dell'artigianato questo tipo di tecnologie è uno degli aspetti che danno una prospettiva ancora aperta per il futuro di questa manifattura, ancora oggi molto importante per l'Italia. Perché se è vero che noi, in qualche modo, abbiamo prodotto il design thinking, che esce un po’ dalla cultura del design, è ancora vero che il prodotto e la materialità degli oggetti continuano a essere molto importanti. Anche se, e lo vedremo poi con l'ultimo libro, questa materialità è oggi in discussione.

CG
Quindi, in sintesi, potremmo racchiudere nella ricetta per il futuro dell'artigianato due ingredienti fondamentali: da una parte il digitale, e tutto il suo sviluppo, i makers, il grande movimento di tornare a fare le cose con le mani, ma attraverso strumenti digitali; dall'altra l’industria, perché forse quella è l’unica possibilità che l'artigiano ha di venire in contatto con complessi economici adeguati al suo lavoro.

RR
Scusa se faccio una chiosa, ma in “Futuro artigiano”, così come in molti altri libri anche successivi a quello di Micelli, quello che dici viene chiaramente espresso: le imprese e le piccole e medie imprese più innovative hanno saputo accogliere l'artigiano, l'artigianalità, e quindi hanno saputo valorizzare la figura dell'artigiano come uno dei perni della progettazione di nuovi prodotti, per una nuova qualità degli oggetti.

CG
Bene, voltando pagina, o meglio tornando alle pagine del design del prodotto e della comunicazione, la seconda parte, quella della comunicazione, è sempre stata un argomento di studio e di ricerca da parte dei progettisti. Su questo tema abbiamo qui un libro miliare che si intitola “Abbecedario. La grafica del Novecento”, edito da Electa e scritto in coppia da due autori: uno è Sergio Polano, uno storico del design molto noto che è stato anche promotore di molte operazioni sull'identità dell'immagine, anche quella dello stesso IUAV; e l'altro autore, il co-autore, è Pierpaolo Vetta, che è un stimato professionista del progetto grafico, anche lui chiamato come docente allo IUAV. Uno è la voce, Sergio Polano, l'altro è la mano che sceglie e descrive, certe volte disegna l'iconografia di questo libro. Un'accoppiata molto fortunata. Purtroppo, Pierpaolo Vetta è scomparso prematuramente nel 2003. Era stato anche art director della rivista “Casabella”, una delle più note riviste internazionali di architettura, ma non solo, ma anche di molte edizioni di Electa, che è un altro vanto dell'editoria italiana.

RR
Sì, purtroppo anche Sergio Polano è mancato di recente. Una perdita molto importante per il mondo del design, non soltanto della comunicazione, perché Sergio Polano, che ha scritto questi testi, è stato anche un grande storico dell'arte dell'architettura e si è occupato anche di studiare alcuni protagonisti del design italiano, come ad esempio Castiglioni o De Lucchi. Ho scelto questo libro perché, a mio parere, è un libro rivolto a chiunque voglia capire che cos'è il design della comunicazione grafica e visiva. Naturalmente non è un manuale, quindi non troverete tutto quello che si può dire e scrivere sulla storia della comunicazione, non troverete tutti i grafici che si possono enumerare, ecc. Una scelta straordinariamente intelligente, rapsodica, che Polano fa con un obiettivo molto preciso: quello di individuare non solo le grandi figure che hanno fatto la storia del design della comunicazione, ma soprattutto i problemi e le grandi questioni legate alla comunicazione grafica e visiva. Tanto è vero che Polano, all'inizio, illustra una serie di artefatti comunicativi che gli servono per dare la consistenza di questa professione, che ha molte analogie con quella del designer del prodotto, ma che naturalmente ha una sua autonomia. Anzi, bisogna ricordare che il design della comunicazione, il designer grafico, è oggi una professione a tutti gli effetti, autonoma rispetto a quella del prodotto. Molto spesso si pensa che invece sia un po’ al servizio di … in realtà non è così. E quindi Polano mette in luce, per esempio, una delle sue grandi passioni, che ha studiato e a cui ha dato grandi contributi: la tipografia, la passione per i “tipi”. Il primo elemento di ogni comunicazione grafica, di ogni progetto di comunicazione, è l'elemento tipografico, cioè il “tipo”. Questo a partire da Gutenberg, con la grande rivoluzione della tipografia nei nuovi sistemi di creazione e costruzione del libro, per arrivare fino a oggi, alle macchine, alla tipografia digitale, quindi al progetto dei “tipi” digitali. Il “tipo” è il soggetto principale della grafica della comunicazione, è il luogo nel quale il suono diventa immagine, è il vero protagonista di questa comunicazione complessa. Tanto è vero che Polano sosteneva che, così come si studiano la paleografia, le scritture del passato, fosse necessario inventarsi una neo-grafia, cioè qualcosa che possa studiare questa forma di comunicazione fondamentale, che è la forma che traduce il linguaggio in un'immagine grafica, in un disegno. Quindi il primo grande elemento del lavoro di Polano è l'analisi del “tipo”: importante perché molti dei grandi grafici che lui sceglierà di inserire nel suo libro sono stati tutti inventori e progettisti di caratteri nuovi, originali. Un altro tema su cui pone l'accento Polano, un tema oggi troppo spesso trascurato - e lo vediamo ogni volta che, per esempio, un ministero lancia un nuovo logo, come quello recente della pubblica istruzione -, è quello della grafica istituzionale. La grafica istituzionale è molto importante, perché è la grafica che noi “usiamo” tutti i giorni e di cui nemmeno ci accorgiamo, la grafica del biglietto del tram e della metropolitana o quella dei biglietti dei musei, cioè tutte quelle forme di comunicazione minuta che noi maneggiano quotidianamente. Un altro esempio a cui Polano dedica ampio spazio sono i francobolli, la cui progettazione, soprattutto nei Paesi del Nord più che in Italia, è stata sempre affidata a grandi designer, a testimonianza di un’attenzione molto alta alle istituzioni pubbliche. Mi premeva sottolineare la questione della grafica istituzionale, perché, come vedete, cerco di accentuare sempre gli aspetti non autoriali del design: parlando di design potremmo anche raccontare i suoi autori, ma è difficile, ce ne sono troppi, e quindi penso sia utile riflettere piuttosto sulle grandi tematiche che il design ci propone. E la questione istituzionale ci porta direttamente a un altro tema che Polano tratta approfonditamente: quello dei pittogrammi, cioè di quei particolari segni iconici che in qualche modo sintetizzano un'idea, un concetto, e in genere hanno un'azione o un oggetto come centro. Per esempio: due bambine e una bambina che corrono con una cartella in mano, come troviamo sulla segnaletica stradale, ci indicano che siamo nelle vicinanze di una scuola, e che quindi dobbiamo essere prudenti. Allora questo dei pittogrammi, come capite bene, è un ambito straordinariamente attuale, contemporaneo, perché noi oggi viviamo in mezzo al mondo della infografica, dell'infodesign, delle icone. Chiunque di noi apra il proprio cellulare si troverà come interfaccia una serie di pittogrammi. La cosa interessante, su anche Polano si sofferma, è la funzione sociale che hanno avuto e che possono avere questi pittogrammi, in quanto elementi di un linguaggio “universale”. Ovviamente, sappiamo che non è propriamente così, perché anche i codici anche visivi delle diverse culture possono differire, ma in ogni caso i pittogrammi sono certamente più “universali” di qualsiasi lingua. E così, infatti, sono nati: è ancora una volta, un non grafico, un non designer come Otto Neurath - grande sociologo e filosofo, un componente del Circolo di Vienna ed esponente di quel filone della filosofia, del positivismo logico, che ha avuto una grande attenzione per gli aspetti sociali – a inventare questo tipo di linguaggio per venire incontro alla necessità di comunicare con i ceti popolari, con le persone analfabete, coltivando così l'idea di un linguaggio universale, socialmente utile. Non è naturalmente lui a disegnare queste icone, questi pittogrammi, sarà invece Gerd Arntz il designer che disegnerà gli omini, gli eserciti, le armi, gli uomini al lavoro, ecc., definendo appunto tutto questo immaginario visivo molto importante. L'ultimo dei grandi artefatti comunicativi di cui si occupa Polano è il manifesto. Il manifesto è uno degli artefatti più importanti della comunicazione grafica e visiva, con un aspetto sociale molto importante, che si affianca naturalmente a quello pubblicitario. Non possiamo non ricordare, e naturalmente Polano li riporta, i grandi lavori per le campagne di Olivetti, ad esempio di Pintori, di Nizzoli, di Milton Glaser e moltissimi altri, che hanno utilizzato il manifesto come uno degli strumenti principali di comunicazione e di pubblicità. Una pubblicità con finalità commerciali, certo, ma che come nel caso di Olivetti e di altri, contribuivano anche a una crescita culturale della cultura visiva.

CG
Bene. Quinto e ultimo libro ancora dedicato alla comunicazione, però sotto un altro aspetto, quello delle tecnologie dell'informazione. L'autore è Luciano Floridi e il titolo è “La quarta rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo”. Floridi, classe 1964, non è designer ma è un filosofo che insegna filosofia e etica dell'informazione all'Università di Oxford. Dirige il Digital Ethics Labs, che è un laboratorio molto importante che lavora proprio sulle tecnologie dell'informazione e, oggi, anche sull'intelligenza artificiale, indagata nei suoi aspetti etici, tema che ci coinvolge tutti e che è campo di indagine anche negli studi politecnici. Di che cosa si occupa questo libro? Di creare dei link, delle relazioni tra le cose, le persone, l'ambiente, che qui viene inteso in modo nuovo. Floridi utilizza due parole, che credo ci spiegherà: “infosfera” e “onlife”. Due parole molto curiose, che quasi intimoriscono e che però costituiscono gli ingredienti fondamentali di questo libro.

RR
Certamente. E ne citerò subito un'altra che fa il paio con queste che hai appena citato, che è l’iperstoria. È un aspetto molto importante perché presiede poi a tutto il resto. Floridi inizia proprio dicendo che l'importanza di queste tecnologie digitali deriva dal fatto che sono in grado di cambiare due degli elementi essenziali del nostro mondo, che sono lo spazio e il tempo. Dal punto di vista del tempo, lui dice, noi siamo abituati a considerare lo sviluppo delle società umane come diviso da una fase di pre-storia e una fase di storia. Quando entriamo nella fase della storia? Quando gli esseri umani inventano i dispositivi per accumulare informazioni e per trasferirle: il linguaggio, i testi sulle tavolette di argilla, il documento, l'informazione. In qualche modo, sostiene Floridi, tutte le fasi storiche - non solo la nostra - sono età dell'informazione. Che cosa caratterizza la fase contemporanea, da questo punto di vista? Il fatto che per la prima volta l'esistenza stessa della società dipende dal buon funzionamento dell'informazione, cioè da come noi gestiamo i dati, i big data, tutte le informazioni che stiamo accumulando e che sono difficilmente gestibili proprio per la loro quantità. Ed è la prima volta che una società si trova di fronte a questo aspetto particolare, cioè dal fatto di dipendere dal modo in cui gestisce le informazioni. Questo fa il paio con un altro aspetto molto importante: è anche la prima volta in tutto lo sviluppo delle società umane in cui, nel contesto del rapporto tra gli esseri umani e la tecnologia, gli esseri umani possono essere esclusi da questa relazione. Le tecnologie non hanno più bisogno del rapporto diretto con l’essere umano perché le tecnologie parlano autonomamente tra di loro: il famoso Internet of Things, o sistemi simili, non prevedono gli esseri umani come attori di una relazione. Questi due elementi, ovvero la dipendenza dai dati e l'uso dell'intelligenza artificiale, caratterizzano la nostra società che, proprio per il fatto di aver incorporato la gestione di questi dati nella vita quotidiana, col nostro cellulare ad esempio, fa sì che noi siamo come dire continuamente connessi, anche senza saperlo, e questo fa di noi degli esseri costantemente “onlife”: la nostra vita è dipendente dalle connessioni e dalle informazioni che riceviamo. Floridi chiama questo nuovo sistema spazio-temporale “infosfera”, che è molto interessante anche dal punto di vista del design, dal momento che una delle definizioni di design sta dentro proprio a questa idea che esistono una serie di sfere che interagiscono tra loro. Secondo Floridi, e temo che abbia ragione, oggi a queste sfere se ne aggiunge un'altra, che è “l’infosfera”. E la cosa interessante dal punto di vista del design, è che Floridi, così come Molotch, Micelli e Maldonado dicono che è proprio il design che si deve fare carico di questa nuova relazione che noi abbiamo con gli oggetti. Perché gli oggetti, oggi, si stanno smaterializzando, hanno cambiato la loro fisionomia, non hanno più la stessa identità. Ovviamente, questo non è valido per certi attrezzi professionali, ma pensate a quanti oggetti oggi incorpora uno smartphone: una videocamera, una macchina fotografica, microfoni, ecc. È come se avesse ingurgitato e rielaborato in un unico oggetto tutti questi oggetti che prima avevano una loro autonomia fisionomia. E allora qual è la cosa importante che deve fare il design? È lavorare sull'interazione. Una parola che da diversi anni ormai - da quando Donald Norman ha cominciato a lavorare sull'idea, appunto, dell’interazione tra gli esseri umani e le tecniche - è diventata fondamentale nel mondo del design. L’interazione e l'interfaccia sono fondamentali, rappresentano una delle grandi frontiere del design che dobbiamo assolutamente tenere in considerazione. Non solo guardando a un oggetto come lo smartphone, ma a tutti quei dispositivi che stanno cambiando fisionomia agli oggetti della vita quotidiana, che stanno diventando “indossabili”, che possono diventare addirittura protesi interne. In questo senso, il design ha un ruolo fondamentale che credo sia giusto ricordare alla fine di questa chiacchierata: quello di mettere insieme la tecnica con l'umano, di occuparsi degli aspetti relazionali. Non ha quindi solo lo scopo di far produrre a un’azienda un nuovo oggetto, ma si pone anche e soprattutto il problema di come questo oggetto, questo artefatto, questo nuovo dispositivo, anche immateriale, si relaziona con le persone.

CG
Gli oggetti delle relazioni sono l'attenzione alle persone, all'ambiente e ai sistemi, che è anche il sottotitolo – e qui faccio un po’ di pubblicità - del nuovo dottorato in design e tecnologia del Politecnico di Torino. Bene, direi che abbiamo concluso. Ringraziamo la rubrica “Cinque Libri” che ci ha dato questa opportunità e ringraziamo la professoressa Raimonda Riccini, ricordando che i cinque libri di cui abbiamo parlato oggi sono disponibili nelle biblioteche del nostro Politecnico.

RR
Grazie.