La salute e il benessere delle comunità: come immaginare un mondo nuovo e impegnarsi per costruirlo | Nerina Dirindin

Chi è Nerina Dirindin

Nerina Dirindin

Economista che si occupa di welfare e di politiche sanitarie. Professoressa dell’Università di Torino, ora in pensione, ha arricchito la propria preparazione con esperienze istituzionali presso Ministeri e regioni e parlamentari, in quanto è stata Senatrice della Repubblica dal 2013 al 2018. Ha svolto numerose ricerche applicate al settore sanitario. È Presidente del Coripe Piemonte, Consorzio per la ricerca e la formazione permanente in Economia dell’Università di Torino e dell’Università del Piemonte Orientale, dove ha promosso il Master in Economia e Politica sanitaria. Recentemente ha realizzato, in collaborazione con l’OMCeO di Torino, il Master in Etica, Deontologia e Politica Sanitaria.

È autrice di numerose pubblicazioni fra le quali un manuale di Economia e salute (Dirindin e Caruso, Il Mulino 2019), un testo divulgativo in difesa della sanità pubblica (Dirindin, È tutta salute. In difesa della sanità pubblica, EGA, 2018), il volume Conflitti di interesse e salute (con Rivoiro, De Fiore, Il Mulino, 2018) e un volume sull'advocacy per la salute mentale (con Saraceno, De Fiore e Del Giudice, Il Pensiero Scientifico, 2022).

“La speranza non è in vendita”

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La speranza non è in vendita

“Perché ci ribelliamo”

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Perchè ci ribelliamo

“La salute disuguale”

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La salute disuguale

“Costituzione della Repubblica Italiana”

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Costituzione della Repubblica Italiana

Professoressa Valentina Cauda (VC)
Buongiorno a tutti e benvenuti a questa puntata di “Cinque Libri”. Sono Valentina Cauda, docente del Politecnico di Torino, e do il mio caloroso benvenuto alla nostra ospite di oggi, la professoressa Nerina Dirindin, che parlerà con noi del tema della salute attraverso i cinque libri che le abbiamo chiesto di scegliere per poter affrontare questo argomento.

La professoressa Nerina Dirindin è un'esperta in tema di politiche dedicate alla salute ed è docente presso l'Università degli Studi di Torino e la Scuola di Management ed Economia. Dal 2013 al 2018 è stata senatrice della Repubblica Italiana e membro della Commissione speciale sugli atti urgenti del Governo e della Commissione permanente Igiene e Sanità. Inoltre, è stata membro della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale. Dal 1999 al 2000 è stata anche Direttore Generale della Programmazione del Ministero della Sanità. È promotrice di svariati progetti di Libera (“Illuminiamo la Salute”), Gruppo Abele, Coop e Avviso Pubblico. È attualmente Presidente del Centro di Iniziativa per la Promozione della Salute e dell'Educazione Sanitaria, nonché dell'Associazione Salute Diritto Fondamentale. Ovviamente, è anche autrice di numerosi libri e pubblicazioni in tema di welfare e di tutela della salute. Nella sua carriera la professoressa Dirindin ha avuto la formidabile occasione di poter coniugare le sue competenze tecnico-scientifiche con quelle istituzionali in tema di politiche delegate alla salute e al welfare. Quindi siamo estremamente onorati di averla qui.
La puntata di oggi è pensata per introdurre appunto il tema della salute, intesa non solo come politiche legate alla salute, o salute in termini di sistema comunitario di regolazione, ma salute anche come benessere delle comunità, mettendo al centro la persona e, specialmente, i giovani. Quindi inviterei la professoressa Dirindin a illustrarci qual è il filo conduttore che ha scelto per la puntata di oggi e qual è il tema che lega i cinque libri che ci ha portato.

Professoressa Nerina Dirindin (ND)
Grazie molte. Vorrei innanzitutto ringraziare il Politecnico per questa bellissima iniziativa e per avermi offerto la possibilità di lavorare con voi e di rivolgermi ai vostri studenti - ma speriamo non solo ai vostri - su questi temi che ho studiato a lungo e che mi stanno particolarmente a cuore. Quando ho ricevuto l'invito mi sono chiesta come selezionare i cinque libri da proporre. Sembra una cosa semplice, ma in realtà, perlomeno per me, non è stata così immediata. Alla fine, dopo aver guardato la mia libreria e aver cominciato a selezionare e a ridurre il numero dei volumi che pensavo di poter illustrare e proporre, siamo arrivati a questi cinque. E il filo conduttore che poi ho capito mi aveva in qualche modo indotto a selezionare questi cinque libri è legato a tre elementi sostanziali, che illustrerò rapidissimamente adesso, per poi vederli quando discuteremo dei singoli libri.
Il primo filo conduttore, lo dico subito in maniera molto semplice e diretta, ha a che vedere con l'idea che dobbiamo imparare a essere sovversivi. Non nel senso di essere polemici, gratuitamente polemici, ma nel senso che dobbiamo imparare a esercitare la nostra capacità critica in ogni occasione della nostra vita quotidiana. E questo dobbiamo soprattutto cercare di condividerlo con i giovani che spesso, a maggior ragione dopo le difficoltà che sono sorte con la pandemia, finiscono con l’essere più disponibili ad accettare acriticamente gli insegnamenti, a non porsi sufficienti quesiti e a non porre sufficienti quesiti a noi docenti, che abbiamo l'impressione di avere in mano certezze assolute, ma in realtà sappiamo che non è la certezza quella che possiamo offrire loro, ma il dubbio, il dubbio metodico. Siate sovversivi, dunque. Mi permetto di ricordare che questa è una frase attribuita a don Tonino Bello, che è stato vescovo in Puglia, ma soprattutto è stato parroco di tantissimi piccoli Comuni. Ha lavorato molto per la pace nel mondo, tema che di questi tempi ci sta molto a cuore, e aveva scritto una bellissima lettera in cui dice ai giovani siate sovversivi, imparate a vivere con passione, abbiate l'audacia di sovvertire lo stato delle cose che conoscete per cercare di capire come si possono migliorare. E, allora, questo è un primo tema che lega i vari libri che vi propongo, che fanno proprio vedere come esistono degli autori che hanno cercato di pensare alla salute, ai servizi sanitari, all'impegno che ogni operatore può mettere per la salute della popolazione, autori guidati dal desiderio di apprendere sempre qualcosa di nuovo, di non accettare acriticamente quello che conosciamo.
Il secondo filo conduttore che mi ha indotto a selezionare questi libri è quello che conosciamo tutti molto bene. Stiamo vivendo un periodo storico difficile, soprattutto per i giovani, un momento difficile sotto vari punti di vista. Da economista cito qualche elemento: non abbiamo ancora superato la crisi che ci ha colpito nel 2008, eppure sono passati 15 anni; abbiamo ancora un reddito pro capite in Italia inferiore a quello che avevamo 14-15 anni fa; abbiamo, ahimè, un tasso di disoccupazione che è molto più alto di quello che avevamo, reso oggi così alto anche e soprattutto dall’aumento di giovani disoccupati. So che i vostri laureati hanno una maggiore facilità rispetto ad altri di entrare nel mondo del lavoro, e questo è una bellissima cosa, è un vostro merito. È incoraggiante. Però, sappiamo che più in generale i giovani vivono momenti di difficoltà, di mancanza di prospettive rispetto al loro futuro. Anche per quelli che riescono a inserirsi nel mondo del lavoro, a causa delle difficoltà che sta vivendo non solo il nostro Paese, ma l’intero mondo occidentale, non è facile guardare al futuro con fiducia. E lo dimostra il fatto che i giovani raramente, o almeno molto meno di un tempo, costruiscono delle famiglie, oppure decidono di mettere al mondo dei figli. E allora c'è bisogno di capire a che cosa leghiamo la speranza, come possiamo rimettere in funzione quell'ascensore sociale che si è rotto, che è fuori uso, e che era quello che motivava le generazioni un po’ più anziane, che avevano di fronte a loro delle prospettive di crescita, di miglioramento, di crescita economica, di maggiore istruzione, di maggiore cultura, di maggiore benessere in senso generale. E questo è il secondo filo che unisce questi libri.
Il terzo filone è quello più direttamente legato alla salute. Quello che cercherò di trasmettere è che la salute non è la semplice mancanza di malattie, come diceva con grande visione l'Organizzazione Mondiale della Sanità, addirittura nel 1948, ma è qualcosa di molto più ampio. È, appunto, un completo stato di benessere fisico, psichico, sociale, mentale. Ed è anche la capacità di vivere in sintonia all'interno delle comunità di cui facciamo parte, di avere relazioni con le persone, di trarre soddisfazione rispetto alle nostre aspettative e ai nostri desideri, di vivere momenti di solidarietà, di fratellanza con gli altri. Ovvero, un concetto molto più ampio di salute, intesa anche come diritto umano fondamentale (l'ultimo libro di cui parleremo sarà proprio su questo aspetto). La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 1948 aveva parlato di salute come assenza di malattia, ha poi contribuito a far evolvere, a far crescere il concetto di salute, riconoscendone lo statuto di diritto fondamentale che appartiene a tutti gli esseri umani. E questo implica ovviamente criteri di giustizia distributiva, di allocazione delle risorse, di intervento pubblico, tutte questioni toccate nei libri che andremo a discutere.
Ecco, questi sono i tre filoni. Ho utilizzato un po’ del tempo che mi è stato messo a disposizione perché forse questi libri possono sembrare a prima vista scollegati, e quindi ho cercato di far capire qual è il collegamento tra loro, sperando anche di incoraggiare l'interesse da parte dei nostri giovani con qualche importante citazione ma soprattutto con qualche visione un po’ più ampia di quella che siamo soliti avere.

VC
Concordo pienamente. Il tema della speranza nelle nuove generazioni è molto importante. Siamo tutti reduci dalla recente emergenza sanitaria, e tutti abbiamo avuto momenti di smarrimento, ma sicuramente i giovani rappresentano la parte della popolazione più colpita, che oltre ad aver subito più di tutti l’isolamento, anche dopo si sono ritrovati a dover affrontare una situazione di totale mancanza di certezze, che ancora oggi patiscono a causa della guerra e della crisi economica. Quindi, il primo libro da cui possiamo iniziare è quello di don Luigi Ciotti, “La speranza non è in vendita”, che parla di salute nel senso di benessere a 360 gradi di una persona. Un libro che guarda alla salute dal punto di vista della giustizia, del lavoro, della famiglia, della persona inserita all'interno di una comunità, nell’ottica di dare l’idea, e quindi la speranza, di una crescita completa.

ND
Esatto. Grazie per questa introduzione, che mi aiuta molto. Il titolo è “La speranza non è in vendita”, che significa che non possiamo pensare che si possa acquistare la speranza da qualche parte, facilmente. La speranza bisogna costruirla con l'impegno e la responsabilità. Il volume è di don Luigi Ciotti, una figura conosciuta, soprattutto a Torino, una persona che ha speso tutta la sua vita per la salute degli emarginati. Ha iniziato, quando ha fondato il Gruppo Abele, con le persone che erano ai margini della società. La povertà è dannosa per la salute e sono proprio i più emarginati che hanno problemi di salute, e che spesso i sistemi sanitari faticano persino a percepire, a vedere. Si è poi occupato di coloro che erano colpiti dall'Aids quando ancora non c'erano terapie e bisognava semplicemente accudire, accogliere, accompagnare in momenti difficili, non far sentire soli i giovani che erano colpiti da questa malattia. Poi, per fortuna, il progresso scientifico in campo medico ha consentito di cominciare a curarla. Don Ciotti si è occupato anche di tossicodipendenza, un altro tema che ha a che vedere con la salute, con le difficoltà che qualche volta incontrano le persone nell’essere indipendenti da forme, da sostanze o da altri comportamenti che ledono la dignità della persona, ma che spesso non riescono a eliminare. E poi ha continuato ad occuparsi dei migranti, che soffrono di grande diseguaglianza nei confronti della salute perché non sempre hanno accesso ai servizi sanitari e, anche quando hanno accesso, non sempre per loro è facile poter usufruire effettivamente dei servizi sanitari, che spesso sono un po’ stigmatizzanti (per fortuna, oggi, sempre più utilizzati, soprattutto dalle donne). Adesso don Ciotti si occupa dei giovani. Uno dei temi che preoccupano tutti coloro che si interessano delle politiche sanitarie è la grande solitudine che vivono i giovani, a maggior ragione dopo la pandemia, che ha visto aumentare enormemente il numero di giovani che si isolano dalla scuola, dalle loro amicizie, dalla famiglia. E questo isolamento, ovviamente, rischia di diventare un problema serio di salute per i ragazzi.
Don Ciotti si è quindi occupato della salute degli ultimi, e scrive questo libro sulla speranza, che ha ormai più di dieci anni, iniziando con una frase, un detto popolare molto antico che dice che finché c'è vita c'è speranza. Tutti noi lo abbiamo detto o sentito dire da qualcuno, ma don Ciotti ci dice che non basta essere vivi per avere speranza. C'è qualcosa di più che bisogna fare: bisogna credere nella giustizia e impegnarsi a costruirla, perché le ingiustizie sociali sono quelle che ledono di più la salute e la dignità delle persone. E ci dà anche qualche indicazione - sebbene don Ciotti, più che dare indicazioni, sia solito condividere con i suoi interlocutori la problematicità dei temi, coinvolgendoli nel discorso -, dicendo che la strada dell'impegno è scandita da tre parole: la corresponsabilità, la continuità e la condivisione. La corresponsabilità perché le ingiustizie poggiano sulla complicità e sui silenzi. E allora bisogna che le coscienze siano meno quiete di quanto normalmente ci capita di vedere. Bisogna essere più aperti al dubbio, più attenti alla ricerca della verità. Questo significa sentire la corresponsabilità di quello che succede attorno a noi, costruendo momenti di amicizia, di solidarietà, di condivisione, che sicuramente sono importanti per il benessere delle persone. La seconda è la continuità. Sembra strana questa parola, però don Ciotti dice che non si tratta di impegnarsi solo ogni tanto per mettere a posto la propria coscienza: bisogna farlo con continuità, con stabilità. E bisogna anche provare sempre ad arrivare al momento propositivo. Allora, rispetto a questo problema, che cosa possiamo fare? L'impegno deve essere sempre quello di trovare concretamente qualche azione che riteniamo sia possibile “mettere a terra”. La terza parola è condivisione, che si spiega molto facilmente: da soli, dice Don Ciotti, non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo imparare a superare gli individualismi, che di questi tempi, invece, si sono molto accentuati, anche a causa della solitudine che abbiamo vissuto durante la pandemia e alle difficoltà che stiamo incontrando. Dobbiamo imparare a passare al “noi”, come dice sempre don Ciotti: non bisogna parlare solo dell'“io”, ma bisogna parlare del “noi”, di quello che possiamo fare insieme.
Questo è un libro agile, che si può leggere anche per capitoli, ognuno dei quali si occupa di un aspetto specifico, non ultimo naturalmente quello delle mafie, di cui non ho parlato ma che è molto importante per don Ciotti, che oltre ad aver fondato il Gruppo Abele, ha fondato anche Libera, un'associazione di associazioni che si occupano della lotta alla mafia e che ha una grande capacità di parlare ai giovani. È entusiasmante partecipare alle iniziative di Libera, in particolare quella del 21 marzo dedicata al ricordo delle vittime innocenti delle mafie, e vedere il grande entusiasmo, la grande passione, il grande senso di responsabilità che tanti giovani mettono nell'organizzare quelle iniziative, nel realizzare alcuni interventi, che danno il segno di come i nostri giovani, pur nelle difficoltà in cui si trovano, hanno una capacità, un'energia, una voglia di mettersi in gioco che spesso noi non siamo capaci di valorizzare e di incoraggiare. Questo libro di don Ciotti può davvero aiutare i giovani ad avere un po’ più di speranza, sapendo che la speranza si costruisce insieme.

VC
Prima di continuare, ricordo che il libro di don Ciotti, così come tutti i libri presentati in questa puntata di "Cinque Libri", sono disponibili nelle biblioteche del Politecnico, quindi accessibili a tutti, sicuramente a tutti gli studenti e al personale del Politecnico. Il secondo libro che la professoressa Dirindin ha scelto è di Erling Kagge “Camminare”, un titolo che potrebbe sembrare distante dal tema della salute, come la stessa biografia di Kagge sembra confermare, lui noto esploratore, uomo coraggioso che ha attraversato lande desolate. E allora, nel discorrere insieme sulla presentazione di questo libro, anche io mi sono posta la domanda di come potessimo correlarlo agli altri. Camminare è in sé un gesto sovversivo, perché se ci pensiamo oggi la nostra vita è molto frenetica, legata alla velocità, al movimento rapido, allo spostarsi da un luogo all'altro il più velocemente possibile per risparmiare tempo. Erling Kagge, invece, qui pone forse l'attenzione più sul gesto del camminare, nel senso della lentezza del movimento, non solo per esplorare in maniera anche coraggiosa gli spazi, ma anche come tempo dedicato alla riflessione, per arrivare più vicino alla profondità delle cose, senza semplicemente passarci a fianco.

ND
Sì, grazie di nuovo per questa introduzione. Questo libro, “Camminare”, è veramente un libro che ti apre il cuore, e che si legge molto facilmente. Kagge, a un certo punto, riporta una frase di Ippocrate, padre della medicina moderna, le cui parole, sebbene di secoli fa, sono ancora importanti. Ippocrate aveva scritto: “Se sei di cattivo umore fatti una passeggiata e, se lo sei anche dopo aver fatto la passeggiata, fanne un'altra. Perché camminare è la migliore medicina per l'uomo”. E allora, come dicevi tu, la frenesia della vita moderna ci porta spesso a pensare che camminare ci fa perdere solo del tempo. Ci sono modi molto più rapidi per raggiungere una destinazione: prendere la macchina, il treno o un qualsiasi altro mezzo di trasporto. E, invece, camminare è estremamente importante. E Kagge - che come hai detto ha scalato l'Everest, ha raggiunto il Polo Nord e il Polo Sud, ha fatto camminate in tutto il mondo - in questo libro fa veramente l'elogio del camminare, perché camminare dà un senso di libertà. Qualche volta abbiamo perso questa capacità di trovare la libertà nel camminare lentamente per le nostre strade. Quando vado veloce, dice Kagge, non riesco a cogliere niente: non sento il vento, non sento gli odori, non sento il tempo, non percepisco il tempo atmosferico, non vedo nemmeno i cambiamenti della luce; non sento le voci delle persone che camminano nella stessa strada, non vivo l'esperienza della distanza, non mi rendo conto della distanza fra i vari punti in cui mi ritrovo a muovermi, non faccio la conoscenza con le cose che mi circondano e, quindi, non traggo beneficio da quell'insieme di opportunità di bellezza e di occasioni che, invece, camminando, mi possono dare soddisfazione. C'è un punto bellissimo in cui Kagge dice che è vero che, se si vuole camminare, bisogna rinunciare a qualche comodità, che bisogna mettere a disposizione qualche minuto in più, o addirittura qualche ora in più, per raggiungere la meta che ci si è prefissati, ma pensate alla soddisfazione di arrivarci avendo camminato e osservato bene tutto quello che c'è di qui a quella meta, pensate alla soddisfazione di arrivare in cima a una collina o a un monte, alla soddisfazione di aver definito una meta precisa e di esserci arrivati con i propri piedi!
Sottolineo un aspetto che ho pensato possa dire qualcosa agli studenti del Politecnico. Kagge dice che i piedi sono i nostri migliori amici, che sono delle strutture meccaniche complesse, molto forti, molto robuste: sono composti da 26 ossa, 33 articolazioni, più di 100 tendini. E poi ci sono muscoli e i legamenti. Noi, forse, non abbiamo mai pensato ai piedi come a una struttura complessa, anzi, credo che nell'immaginario di ognuno di noi il piede sia pensato come una cosa di “basso livello”, perché le mani ci aiutano a disegnare, a suonare il piano, ma i piedi ci tengono soltanto in piedi. E invece Kagge dice che sono così robusti che riescono a tenerci piedi, che tengono il corpo eretto e, per ricordarci perché camminare fa bene, dice che ogni tanto la nostra testa rischia di perdere il contatto con i piedi, ovvero rischia di perdere il contatto con la realtà, con la terra sulla quale viviamo. Se invece camminiamo, i piedi percepiscono quello che abbiamo sotto di noi, vicino a noi, e ci aiutano anche a ritrovare, con la testa, la ragione per la quale viviamo. Camminare fa bene alla salute non soltanto fisica - nel senso che, fortunatamente, in questi ultimi anni sempre più viene proposto alle persone più anziane, o alle persone che soffrono di qualche malattia, di qualche vulnerabilità, di fare attività fisica per mantenersi in allenamento - ma anche psichica: fa bene alla nostra testa, fa bene perché ti dà soddisfazione, perché ti fa sentire parte dell'ambiente, del mondo in cui vivi. Kagge dice, appunto, che chi cammina gode di migliore salute, ha una memoria più efficiente, è più creativo, e per questo oggi può essere considerato come un gesto sovversivo. Quindi ritorniamo sulla necessità di imparare tutti insieme a fare qualcosa che non è così rispondente a ciò che normalmente vediamo fare - prendere la macchina e andare in ufficio o in università - ma provare a fare qualcosa di diverso, domandandosi se quando aderiamo semplicemente a dei luoghi comuni, o a delle modalità comuni di svolgere determinate azioni, non rischiamo di perdere delle cose fondamentali che ci danno grande soddisfazione e ci danno quella capacità di far valere la nostra energia, molto meglio di quanto non lo faremmo altrimenti.

VC
Bene, procediamo sul filo conduttore della sovversione con il terzo libro che ha scelto, “Perché ci ribelliamo” di Victor Montori, un titolo già molto provocatorio. Victor Montori è un ricercatore molto noto, un diabetologo della Mayo Clinic negli Stati Uniti, che in questo libro introduce il concetto di quanto la salute, negli anni, sia stata in un certo senso industrializzata e di quanto la medicina si sia dunque distaccata dai bisogni reali della persona, di quanto i medici sempre meno si prendano cura della persona intesa come individuo, e non solo come paziente affetto da una patologia specifica. “Perché ci ribelliamo” è proprio un grido di allarme, una sveglia per cercare di ritornare un po’ alla dimensione della persona come individuo a 360 gradi, di cui prendersi cura. Perché è bello prendersi cura di qualcuno…

ND
Sì, Victor Montori, come hai detto, lavora in un gruppo non profit che ha molti ospedali negli Stati Uniti, tutti di grande qualità, un gruppo molto prestigioso. Eppure ha scritto questo libro con parole estremamente equilibrate e pacate, suggerendo la necessità di cambiare prospettiva. Montori si rivolge qui non soltanto ai medici, la categoria di cui fa parte, esortandoli a ribellarsi, ma anche agli stessi pazienti, chiedendo loro di aiutare i medici in questa azione di ribellione, di essere loro stessi i protagonisti di questa rivoluzione. Montori, tra le altre cose, ha fondato “The Patient Revolution”, un'organizzazione non profit che mira a trasformare in azioni concrete, attraverso l'aiuto dei suoi pazienti, ciò che spiega proprio in questo libro. Secondo Montori è sbagliato il modo in cui stiamo vivendo la medicina moderna, una medicina industrializzata che non presta la dovuta attenzione alle persone, che standardizza le pratiche, che considera i pazienti come categorie contraddistinte da caratteristiche comuni. La medicina, sostiene Montori, dovrebbe invece prendersi cura del paziente, senza considerarlo una semplice categoria, perché dentro la categoria ogni paziente ha i suoi problemi specifici, la sua individualità. I medici, dice, tendono a usare rigidi protocolli e il timore di deviare da questi protocolli li porta a perdere di vista la persona. Negli Stati Uniti questo problema è forse più diffuso che non in Europa, ma ormai lo sta diventando anche nei nostri paesi.
La medicina difensiva ha preso piede, quella medicina secondo cui non bisogna discostarsi dalle linee guida raccomandate dai protocolli clinici che sono stati indicati dalle autorità regolatorie perché il rischio è essere citati in giudizio dai pazienti. I sistemi per i quali lavoriamo, dice Montori, hanno più a cuore il volume delle attività svolte, da cui dipende ovviamente l'entità delle entrate economiche, che non le caratteristiche delle singole persone e la loro cura. La medicina industrializzata, sostiene Montori, uccide l'anima del guaritore, del medico, che si adegua a un modo di comportarsi acquisito già nel percorso di formazione universitaria, un percorso iperspecialistico, che guarda al singolo organo malato o al singolo problema della singola persona e non alla complessità di quella stessa persona, inducendo i clinici a non occuparsi più della persona umana, ma appunto, più semplicemente, di quel pezzo della persona umana che sembra essere malato. E allora, dice Montori, questa medicina industrializzata è una corruzione della missione originale del medico, che tuttavia in tantissimi casi, nella mia esperienza anche presso le organizzazioni sanitarie, vive ancora in molti professionisti, che hanno ancora quella vocazione, quella dedizione nei confronti dei pazienti che probabilmente è stata quella che li ha spinti a scegliere di fare medicina o di fare infermieristica o di studiare per altre professioni sanitarie. Una missione che però, come dice Montori, rischia di essere sempre più corrotta da sollecitazioni, indicazioni o, addirittura, forti pressioni affinché si sia rapidi nel visitare i pazienti, si sia attenti agli equilibri di bilancio della struttura di cui si fa parte. Invece, i giovani idealisti che si avvicinano alla medicina devono poter pensare che poi potranno praticare questa medicina.
Qui torna ciò che abbiamo vissuto durante la pandemia, quando abbiamo scoperto che i professionisti della salute hanno una forte abnegazione e una capacità di lavorare senza guardare l'orologio o ai rischi che corrono. È successo per molti professionisti della salute, che abbiamo ringraziato, allora, con grande emotività e con grande convinzione, salvo poi, passata l’emergenza, dimenticarcene un po’. Montori dice che non è che dobbiamo rinunciare a un rigore gestionale dentro le nostre strutture, perché è ovvio che le strutture che si occupano della salute delle persone, a partire dall'ospedale (ma non solo), operano grazie alle risorse che sono messe a disposizione: nel caso del servizio sanitario nazionale, attraverso la fiscalità generale, cioè dai contribuenti che pagano le imposte e che noi abbiamo il dovere di utilizzare al meglio; in un sistema come quello degli Stati Uniti, dove la medicina è principalmente privata, dalle risorse che i clienti mettono a disposizione per essere curati. Quindi, Montori ci tiene a dire che la volontà non è quella di utilizzare le risorse in maniera baldanzosa, ma, al contrario, quella di utilizzarle in maniera rigorosa, senza tuttavia che il problema delle risorse prenda il totale sopravvento rispetto alla cura. Montori, parlando di cura, usa parole molto chiare, addirittura sorprendenti per un medico di una struttura ospedaliera di eccellenza: parla di gentilezza, di delicatezza, di amicizia, di comprensione, di capacità di ascolto. È sbagliato pensare che il medico sia soltanto depositario di competenze tecniche specifiche rispetto alla malattia che abbiamo. Quello che vogliono le persone, quando hanno un problema di salute, è trovare qualcuno che le ascolti, che abbia la pazienza di ascoltare quei sintomi che alle volte, magari, non ha nemmeno senso raccontare ma che si ha comunque bisogno di dichiarare, di qualcuno che dedichi loro qualche minuto in più. Montori dice che quando dedichiamo qualche minuto in più al paziente, questo ci viene restituito moltiplicato, perché il paziente ha aumentato la fiducia nei nostri confronti, è più disposto a seguire le nostre indicazioni e, anziché prescrivere un controllo dopo poche settimane, glielo possiamo prescrivere dopo qualche mese, spesso perché sappiamo che lui seguirà le indicazioni che noi gli abbiamo fornito. Quindi, è meglio per il medico perché sente di non tradire la sua missione, ed è meglio per il paziente, perché sente di potersi fidare del medico. E allora, come dice Montori, dobbiamo ribellarci a una medicina troppo industrializzata.

VC
Un input molto prezioso. Il quarto libro che è stato scelto è di Michael Marmot, “La salute disuguale”. Qui entriamo un po’ di più nel tema della salute intesa dal punto di vista delle politiche sociali. Questo è un libro che raccoglie alcuni interventi, discussioni, interviste che Marmot ha fatto lungo la sua carriera, nelle quali cerca di risvegliare un po’ le coscienze, sia della popolazione sia degli amministratori locali. Perché il problema affrontato, la salute disuguale, è proprio l'idea che la salute non è uguale per tutti. Esistono differenze tra i vari paesi, anche all’interno di uno stesso paese, come ad esempio in Italia, dove purtroppo c’è una grande differenza fra i servizi sanitari offerti nelle città del Nord e, ahimè, quelli offerti al Sud. Differenza che ricade sulla cura stessa del paziente, necessariamente più trascurato laddove ha minore possibilità di accedere a quei servizi. Esiste quindi una questione di giustizia sociale. Credo che questo sia un libro indirizzato proprio agli amministratori, per cercare di richiamare l’attenzione sulla necessità di rendere la salute più uguale per tutti e, allo stesso tempo, di risvegliare le coscienze delle persone. Perché anche noi dobbiamo essere più responsabili e imparare a conoscere i servizi sanitari a cui possiamo accedere, le cure di cui possiamo usufruire.

ND
È proprio così. Dunque due parole su Marmot. Marmot è un epidemiologo che vive a Londra e insegna all'Università, ma è anche un medico che ha fatto esperienze in giro per il mondo, anche in paesi molto poveri e con sistemi sanitari molto diversi da quello inglese. Ha lavorato in Nuova Zelanda, nelle favelas di Rio de Janeiro, in Canada, in Australia, in India, e ha avuto la fortuna, se così si può dire, di conoscere realtà molto diverse da quella londinese da cui proveniva e in cui si è costruito una professione. In questo libro Marmot - che ha presieduto anche la commissione dell'Onu per lo studio delle diseguaglianze sulla salute di cui hanno fatto parte diversi premi Nobel e molti grandi studiosi che provenivano da tutto il mondo - racconta un po’ le sue esperienze, come hai ben detto anche tu. E racconta soprattutto come è arrivato a scegliere di fare l'epidemiologo.
Vi racconto questo primo caso, che lui cita proprio nell'introduzione, quando da giovane studente di medicina lavorava a Sydney, nella struttura di psichiatria dell'ospedale in cui lavorava anche il suo professore e maestro. Racconta la storia di una persona, di cui non fa il nome, che si presenta dal primario dell’ospedale e dice che ha difficoltà a dormire, che non ha energia, che non riesce a svolgere le attività quotidiane, che piange sempre, tutti i giorni, con un marito che beve e la picchia, un figlio in prigione e una figlia, ancora adolescente, che è incinta. L'equipe medica che l'aveva presa in carico, il responsabile in particolare, abbastanza sbrigativamente decide di sostituire le pillole blu che le erano state prescritte - e che evidentemente non avevano sortito gli effetti desiderati - con delle pillole rosse, dandole appuntamento dopo qualche mese. Marmot dice che in quel momento gli si è accesa una lampadina: non è possibile che la soluzione proposta a questa persona sia semplicemente quella di sostituire una pillola blu con una pillola rossa. Come può un medico, anche ammesso che riesca a curare una persona con una pillola, far ritornare quella persona nel luogo in cui si è ammalata, e che è probabile sia la causa prima della sua malattia? Perché è evidente che in quella persona c’era qualcosa di molto più ampio che non “funzionava” e che il medico - e qui possiamo ricollegarci al tema dell'assistenza industrializzata di Montori - cerca di curare guardando solo al sintomo, senza andare a indagare le vere cause della malattia. È allora, dice Marmot, che ha capito che doveva fare l'epidemiologo, una professione che in quegli anni sconsigliavano tutti, perché all'epoca l'epidemiologia era soltanto lo studio statistico della diffusione delle malattie. Solo più tardi l’epidemiologia è diventata una branca della medicina che allo studio delle cause delle malattie ha affiancato lo studio dei determinanti sociali delle malattie, delle condizioni che fanno ammalare le persone.
Marmot continua a lavorare in realtà che sono particolarmente gravate dalle diseguaglianze di salute e ha modo di verificare alcune delle evidenze scientifiche che già allora esistevano, rispetto ai fattori che producono differenze nella salute delle persone. Differenze nell'accesso ai servizi sanitari e persino differenze nell'esito, in termini di salute, sulle singole persone a seconda delle loro condizioni sociali, perché lo stesso trattamento può avere esito diverso a seconda delle categorie di persone che abbiamo di fronte e delle loro caratteristiche. Marmot comincia ad avere sempre più l'ansia di parlare delle politiche sanitarie con il mondo dei decisori, per fargli capire che le diseguaglianze esistono e sono una causa di peggioramento delle condizioni di benessere dell'intera collettività, e che quindi non possono essere dimenticate. Se noi, dice Marmot, ci concentriamo sulle persone più emarginate non soltanto evitiamo che ci siano queste diseguaglianze, ma produciamo un benessere generale nei confronti dell’intera popolazione. Nel secondo capitolo del libro Marmot fa una serie di riflessioni che qui voglio riprendere rapidamente. Inizia parlando delle dieci regole d'oro che nel 1999 la Federazione dei medici inglese aveva individuato come consigli utili per stare meglio. La prima è: “Non fumare. Se fumi cerca di smettere. Se non riesce a smettere, almeno riduci il numero di sigarette che fumi ogni giorno”. Poi ovviamente ci sono tante altre raccomandazioni: “fai attività fisica tutti i giorni”, “non bere alcol e se lo bevi fallo con moderazione”, “guida in maniera sicura”, “adotta abitudini sessuali sicure”, ecc. Sono tutte raccomandazioni che ci sentiamo dire molto frequentemente e che sicuramente servono per migliorare la salute individuale, facendo leva sui comportamenti e gli stili di vita di ognuno di noi. Marmot contrappone queste regole ad altre dieci regole d'oro alternative a quelle tradizionali della medicina, che purtroppo sono poco conosciute e che invece sono estremamente eloquenti. Sono regole, queste, che vengono sempre dal mondo anglosassone, dall'Università di Bristol, nello specifico da David Gordon, il quale scrive altre dieci regole d'oro che attengono non alla responsabilità individuale ma alla responsabilità collettiva, alla prevenzione collettiva. La prima, ricordando la regola del non fumare, recita: “non essere povero. Se non riesci a smettere di essere povero, cerca di esserlo per il minor tempo possibile”. Questa raccomandazione mette in luce come il primo fattore delle malattie sia di fatto la povertà. La povertà non solo economica, ma la povertà educativa, la povertà di relazioni sociali, la povertà di una vita soddisfacente nel mondo del lavoro e nella collettività di cui si è parte integrante. È una regola fondamentale rispetto alla quale il singolo individuo può fare poco, ma possono fare molto i responsabili politici, i decisori, gli amministratori locali.
Mi piace leggere ancora qualcuna di queste dieci regole d'oro e mi auguro che siate incuriositi e che andiate a leggerle anche voi. “Non fare un lavoro manuale malpagato e stressante” oppure “non vivere in un'area deprivata, se puoi trasferisciti altrove”. “Se sei disabile cerca di superare le difficoltà e, soprattutto, cerca di non avere un figlio disabile”. E poi, ancora, “sfrutta l'istruzione per migliorare la tua posizione socioeconomica”, e, in ultimo, “richiedi tutti i benefici cui hai diritto”, che sottolinea come i diritti delle persone siano fondamentali e come spesso, come tu hai anticipato, le persone non conoscono quali siano i loro diritti, e quindi bisogna aiutarle a fare in modo che possano farli valere.

VC
Bene, direi che questa è una perfetta introduzione all'ultimo testo che la Professoressa ci porta, che è la “Costituzione della Repubblica Italiana”, la Carta dei fondamenti della nostra democrazia, ma anche dei nostri valori. La carta su cui possiamo trovare i nostri diritti, di cui dobbiamo farci forti, e i nostri doveri.

ND
È vero, alla fine abbiamo pensato, anche con gli organizzatori, di sostituire uno dei libri che avevo indicato all’inizio con la Carta costituzionale, una scelta che risponde bene alla logica con la quale abbiamo immaginato questo incontro. E allora qualche parola sulla Costituzione, che meriterebbe di essere considerata non soltanto per il diritto alla tutela della salute, ma anche per tutti gli altri diritti, che sono collegati, come il diritto al lavoro, il diritto a una scuola aperta a tutti, il ripudio della guerra, il diritto alla libertà di pensiero, alla libertà personale, il diritto delle donne a essere trattate, nel mondo del lavoro, esattamente alla stessa maniera degli uomini. Pensate, siamo nel 1948, eppure questo diritto è stato scritto nella nostra Costituzione. I diritti che abbiamo, dunque, ma anche il dovere della solidarietà politica, economica, sociale, tutti doveri che la Costituzione chiama inderogabili. E allora, quello che avevamo immaginato è che spesso i nostri giovani conoscono poco la Costituzione, soprattutto chi segue un percorso di studi in cui non ha occasione di studiare diritto, e quindi di vedere, anche se in maniera rapida, i contenuti della nostra carta, almeno nella sua prima parte, quella dei diritti fondamentali, visto che la parte restante è in realtà un insieme di articoli molto più tecnici che difficilmente potrebbero interessare un giovane.
La Costituzione è stata scritta in modo semplice, severo ma semplice. Non ci sono tecnicismi, non c'è retorica. La Costituzione parla con serietà e delinea le condizioni che ci permettono di distinguere ciò che dobbiamo fare da ciò che non dobbiamo fare, ciò che è giusto da ciò che non è giusto, ciò che è bene e ciò che non è bene. È stata pensata come un patto di fraternità e di sorellanza fra tutte le persone del nostro popolo, ed è la sintesi di culture che, allora, erano prevalenti, dalla cultura cristiana a quella socialista, a quella liberale, che sono riuscite a trovare una sintesi nel rispetto della persona umana. E noi, le generazioni che sono venute dopo quel 1948, le generazioni più anziane come la mia, ma anche le generazioni più giovani, come quella dei nostri studenti, siamo custodi di questa Costituzione, siamo realizzatori di questa Costituzione. La Costituzione, diceva Giuseppe Dossetti, è una compagna di strada. E allora bisogna che prestiamo più attenzione alla nostra Costituzione, occorre conoscerla meglio e, soprattutto, occorre difenderla dai tanti assalti che molto spesso cercano di trasformarla. La nostra Carta costituzionale ha dei contenuti ideali ma che non sempre, purtroppo, si trasformano in comportamenti diffusi, soprattutto di coloro che hanno maggiori responsabilità di governo.
E allora abbiamo il compito di ricordare che la Costituzione è il libro per eccellenza che dovremmo leggere, e con riguardo alla salute, che è il tema di questa nostra conversazione, sottolineo l'articolo 32 della Costituzione, che dice: “la tutela della salute è diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività”. I nostri padri costituenti avevano cioè ben chiare due cose: primo, che la tutela della salute è un diritto fondamentale, nessun altro diritto lo è, solo quello della salute, che quindi sta sopra tutti gli altri diritti; secondo, che la salute non è solo un diritto fondamentale di ogni singolo individuo, ma è interesse della collettività, è interesse di tutti. E questo dimostra la capacità di guardare lontano, che deve corrispondere alla capacità nostra, custodi di questa Costituzione, di ricordare sempre questi aspetti e di metterli in pratica quotidianamente.

VC
Bene, grazie Professoressa Dirindin per questo suo intervento e, nel ricordare al pubblico che tutti questi libri sono disponibili nelle biblioteche del Politecnico, auguro buona lettura a tutti.