L'Asia Centrale in una prospettiva storica | Marco Buttino

Chi è Marco Buttino

Marco Buttino

Marco Buttino ha insegnato Storia Contemporanea e Storia delle città e delle migrazioni all’Università di Torino.

Ha scritto saggi sulla trasformazione sociale in Russia e in Asia centrale. Ha in corso una ricerca sui migranti africani in Italia.

Tra le sue pubblicazioni: La rivoluzione capovolta. L’Asia centrale tra il crollo dell’impero zarista e la formazione dell’Urss, l'ancora del mediterraneo, Napoli 2003; Samarcanda, storie in una città dal 1945 ad oggi, Viella, Roma 2015. Articoli recenti sui migranti: Migranti Africani: la circolazione di persone e di cose, in D. Di Sanzo (a cura di), Lavori migranti, Storia, esperienze e conflitti dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, Le Penseur Edizioni, Potenza, 2021, pp. 335-368;  Abdi in gabbia: i guai di un migrante somalo in Italia, in Il De Martino 31/20 (2021), pp.101-133.

"Stalinismo di frontiera"

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Niccolò Pianciola, Stalinismo di frontiera

"The New Woman in Uzbekistan"

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Marianne Kamp, The New Woman in Uzbekistan

"Laboratory of Socialist Development"

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Artemy M. Kalinovsky,  Laboratory of Socialist Development

"Sovetskij kishlak"

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Sergej N. Abashin, Sovetskii Kishlak

Sergej N. Abashin - Novoe Literaturnoe Obozrenie

Edizione italiana: "Qishloq" - Viella

Anita Tabacco: Benvenuti a questa nuova puntata di Cinque Libri. Prima di introdurre il nostro ospite, vorrei ricordare molto brevemente quello che è un progetto che il nostro Ateneo porta avanti in Uzbekistan dal 2009.

Alla fine del 2008, Uzavtosanoat (il gruppo automobilistico statale uzbeko), General Motors e il nostro Ateneo hanno infatti siglato un contratto per istituire una nuova Università a Tashkent, la Turin Polytechnic University, meglio conosciuta con il suo acronimo TTPU, che al momento è una delle realtà che porta una formazione molto mirata e di alto livello all'interno dell’Uzbekistan. Si va dalla meccanica all'ingegneria dell'automobile, dall’architettura all’ingegneria energetica, passando per l’ingegneria dell'informazione.

Ma veniamo ora al professor Marco Buttino, che è stato professore di Storia Contemporanea presso l'Università di Torino e ha lavorato moltissimo negli archivi sovietici fin da quando sono stati aperti per la prima volta agli studiosi stranieri. Il professor Buttino ha vissuto lunghi periodi in paesi come l’Uzbekistan, il Kazakistan, ma anche la Russia. Ha fatto parte della redazione di riviste quali “Central Asian Survey”, “Quaderni storici” e “Cahiers du Monde Russe” ed è attualmente membro del comitato direttivo di “Memorial-Italia”. Ha scritto vari saggi che coprono aspetti diversi della storia dei Paesi dell'Asia Centrale, in particolare sulla trasformazione urbana e sociale. In questa sede voglio ricordare con precisione alcuni dei suoi lavori più significativi, “La rivoluzione capovolta”, che è un libro del 2003, tradotto in russo nel 2008, e “Samarcanda. Storie in una città dal 1945 a oggi”, che è un libro del 2015, tradotto in inglese nel 2020.

Oggi ci occuperemo invece dei cinque libri che abbiamo chiesto al collega Buttino di selezionare. Inizierei quindi introducendo il libro di Niccolò Pianciola, “Stalinismo di frontiera”: come si è trasformata quest’area negli ultimi anni? Le campagne sono cambiate? E come si è passati dalla colonizzazione russa a una collettivizzazione che a volte diventa anche carestia?

 

Marco Buttino: Il libro di Pianciola tratta proprio di questi temi. Parlando di Asia Centrale io credo sia giusto partire dalle campagne, come ha detto lei. E' una regione immensa, composta da vari  Stati, prevalentemente agricola, ma fatta anche di luoghi deserti. L'economia agricola è dominante, e lo è già da molto prima del periodo che ci interessa.

Se vogliamo guardare al passato con gli occhi di oggi, secondo me, dobbiamo guardare all’Asia Centrale da quando arrivarono i russi e la colonizzarono. Esiste una storia della colonizzazione - e il libro di Pianciola la ricostruisce - che racconta dell’arrivo dei militari russi a metà Settecento, prima nelle steppe e poi nella parte sud dell'Asia Centrale, ossia nelle attuali regioni di Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan. Il loro è un insediarsi innanzitutto come presenza militare; solo dopo i russi iniziano anche a interessarsi ad attività economiche, tra le quali il verso business è l'economia del cotone. Si discute allora della rilevanza dell’economia del cotone per l'Impero russo. La produzione del cotone, ancora oggi, implica la mobilitazione di tantissime persone in Asia Centrale. Ma torniamo all’epoca della colonizzazione: c'è una presenza militare, c’è una presenza negli affari, c’è l'interesse per il cotone. Il cotone continua quindi a essere prodotto da contadini autoctoni, sotto una presenza russa che diventa sempre più forte. C'è però anche colonizzazione russa, nelle campagne, che non crea aziende che producono cotone, e che produce invece grano. Questa differenza di produzione tra la gente locale, che produce il cotone, e i russi, che producono grano, diventerà poi molto importante nei decenni successivi, in modo particolare quando scoppierà la guerra civile. Una guerra, quella tra il 1917 e i primi anni Venti, che porterà una carestia, durante la quale moriranno tantissime persone di fame. Una delle dinamiche importanti - che come possiamo immaginare è tipica delle situazioni in cui ci sono fame e carestia - è quella che vede sopravvivere meglio coloro che producono generi alimentari rispetto a chi, invece, produce altro, ad esempio cotone. Sopravvive anche chi ha la forza di imporsi sugli altri attraverso l'uso della forza. L'economia locale si trova così nel pieno del disastro prodotto dalla carestia, che si traduce nell’esigenza di cambiare colture, di abbandonare la produzione di grano per la Russia e di produrre generi alimentari. È però impossibile farlo, dal momento che se arriva del grano, le persone, per sopravvivere, se ne nutrono prima di seminarlo. In questi anni di una rivoluzione, che viene dalla Russia, e di disastro sociale, la questione dell'accesso al cibo diventa dunque essenziale. I russi sono egemoni sia perché sono gli artefici della rivoluzione, sia perché sono armati, sia perché producono il grano in un momento in cui la gente sta morendo di fame. E questo dà loro un potere gigantesco. In questa situazione si instaura in Asia Centrale il regime sovietico.

Il libro di Niccolò Pianciola tratta si questo periodo di crisi profonda e guarda anche a quanto accade dopo questi anni terribili. C'è un periodo, infatti, in cui sembra che la situazione cambi, c'è una relativa pace, si discute di come far nascere delle Repubbliche Socialiste liberando il territorio dalla presenza coloniale russa. Ci sono primi tentativi di mandar via i coloni russi. Poi tutto questo - e siamo ormai agli anni Trenta, ed è anche questo il centro del libro di Niccolò Pianciola - viene travolto dal fatto che a Mosca si decide di collettivizzare l'agricoltura. Collettivizzare l’agricoltura in un territorio così vasto significa sostanzialmente l'esproprio dei contadini e la formazione di aziende di Stato. Nelle regioni meridionali dell'Asia Centrale, dove sono attive le aziende che coltivano e producono cotone, la collettivizzazione non comporta grandissimi danni. Li comporta nelle limitate zone che sono state colonizzate da russi e producono grano.

Il vero disastro avviene  nelle zone del nomadismo nomadi. Tutto gli attuali Kazakistan, Kirghizistan e Turkmenistan sono zone di semi nomadismo, e anche. La collettivizzazione qui implica di impedire il nomadismo e di creare degli allevamenti stanziali. Non solo è una idea di modernizzazione calata dall’alto, che sconvolge i modi di vita, è uno sconvolgimento che rompe il sistema di vita e di sopravvivenza delle persone. Il nomadismo si basa sul fatto che i pastori possano spostare le mandrie a seconda della fioritura della steppa, a seconda delle stagioni e dei percorsi: si tratta di un sottile equilibrio tra territori praticabili, quantità di persone e quantità di animali. La collettivizzazione blocca gli spostamenti, rompe questi equilibri e provoca una moria gigantesca di bestiame e poi, di conseguenza, la strage dei nomadi. In questi anni di collettivizzazione, quasi la metà dei nomadi che abitano l’Asia Centrale muoiono. Sono i primi anni dello Stalinismo, della Grande Unione Sovietica. La strage è provocata da una politica che certo non aveva come obiettivo quello di uccidere le persone, ma che ha imposto con la forza un'idea astratta di modernizzazione producendo un disastro. Il peso di tutto questo avrà conseguenze profonde negli anni successivi e condizionerà il futuro di questa regione. Il libro di Pianciola fornisce un'analisi molto accurata di questa vicenda e rappresenta un punto di partenza ideale per il lettore che vuole saperne di più.

 

AT: A questo proposito vorrei fare un passo avanti di un certo numero di anni, passando al secondo dei libri che hai scelto, che è “The New Woman in Uzbekistan” di Marianne Kamp, la quale studia appunto la donna cosiddetta “nuova” in Uzbekistan. A tal proposito mi rifaccio a quella che è una mia esperienza personale. Ricordo la prima volta che andai in Uzbekistan, nel 2010: rimasi stupita dal vedere come le ragazze si vestissero all’occidentale. Devo dire che, certamente sbagliando, mi aspettavo un paese diverso da quello che ho incontrato. Dopo di che, però, ho fatto esperienza anche dell’altro lato della medaglia. Sempre durante quel primo viaggio, la prima volta che mi fu presentata una persona importante all'interno dell'università, quello che feci naturalmente fu di allungare la mano per poter stringere la sua - non eravamo ancora in epoca Covid - ma la persona la ritirò, mentre al collega maschio questo trattamento non fu riservato. Ecco: è cambiato qualcosa oggi nella vita delle donne?

 

MB: È cambiato moltissimo. La tua impressione di allora non era sbagliata. Dietro a questo cambiamento, però, c'è un percorso molto faticoso. Nel mondo musulmano, nei primi due decenni del '900, indipendentemente dall'arrivo dei russi, nascono idee riformiste che hanno tra i suoi punti di riferimento la questione della famiglia, la posizione delle donne e la questione della loro emancipazione anche attraverso l'educazione e il lavoro. Le donne possono andare a scuola, istruirsi e quindi emanciparsi, oppure devono stare chiuse in casa? Legato a questo aspetto, all’andare fuori ed esporsi, c'è la questione del velo. Soprattutto dal primo arrivo dei russi, le popolazioni locali hanno reagito rendendo più diffuso l'uso del velo per le donne. Le donne non dovevano mostrarsi, soprattutto agli stranieri, e perciò devono essere coperte da un velo integrale che dalla testa arrivava ai piedi. Un tipo di “abito”, questo, che era il segno visibile della posizione delle donne in quella società. Qui siamo a un secolo fa. La cosa continua così fino alla seconda metà degli anni Venti, quando il potere sovietico - ormai consolidato – cerca di imporre un’idea di emancipazione che guarda al mondo occidentale. I sovietici trovano alleati tra i riformisti islamici che guardano ai tentativi di riforma  avvenuti in Iran nel primo decennio del secolo, poi in Turchia e infine anche nell’Afghanistan degli anni Venti. C’è, in sostanza, un intero mondo che sta affrontando la questione riformista, e i sovietici puntano su queste spinte locali per accelerare il cambiamento.

Quanto accade anche qui è però molto diverso da quanto sperato. La riforma di fatto non funziona come fatto spontaneo: gli alleati sono molto deboli rispetto a una società contadina o tradizionale che è sempre poco interessata a questo tipo di novità. Il risultato di questa spinta riformista è una grande manifestazione, passata alla storia, nella quale le donne sfilano senza il velo. Queste donne dovranno però subire una sorte pesante, poiché le famiglie tenderanno a ripudiarle. L'abolizione del velo è un atto imposto, ha così un peso relativo, e la vita non cambia poi così tanto.

Nei decenni seguenti le donne tendono in effetti a usare sempre meno il velo. Certo restano le grandi famiglie con molti figli, in cui le donne trovano il loro posto esclusivamente in casa e in cui la forza della tradizione continua ad avere la meglio. Quando l'Unione Sovietica cadrà ci saranno anche dei tentativi di ritorno al passato dal punto di vista del velo. Inizieranno nuovamente a comparire nelle strade delle donne con il velo, e sarà una cosa strana. Sono gli anni in cui io faccio ricerca  a Tashkent e trovo straordinario vedere come in strada compaiono contemporaneamente donne con il velo accanto a donne con la minigonna. E la cosa eccezionale è che i due modelli, per quanto antitetici, convivono: dipende molto dalle famiglie, dall'età, da scelte individuali. Non è così strano trovare una famiglia molto tradizionale che vive accanto a una famiglia che invece si è allontanata da quelle tradizioni.

In epoca sovietica matura questa contraddittorietà. Le donne ottengono il diritto di lavorare e di conseguenza c'è un cambiamento anche in seno alle famiglie. Le donne possono lavorare, ma allo stesso tempo, in casa, restano nel ruolo dettato dalla tradizione. Vi è una onorificenza sovietica, diffusa ancora negli anni Cinquanta e Sessanta: si tratta di una medaglia che viene data alle "donne eroine", ossia le donne che hanno molti figli. Se una donna ha dieci figli viene premiata, e questo, se ci pensiamo, è un aspetto un po’ contraddittorio dell'Unione Sovietica: il Partito sostiene che le donne debbano diventare delle operaie ma non vuole mettersi contro alle tradizioni popolari. Più figli avevano, più era riconosciuto loro il ruolo di donne procreatrici e, per questo, erano remunerate, ricompensate e onorate. Lo smantellamento della famiglia tradizionale è quindi uno dei punti forti nel progetto politico di trasformazione della società locale, ma i suoi risultati sono contraddittori. Questi temi sono i temi affrontati da Marianne Kamp nel suo libro.

 

AT: Bene, cambiamo dunque tema - nemmeno poi così tanto -  passando a parlare del terzo libro scelto, che è quello di Paul Stronski, che racconta la città di Tashkent in anni particolari, tra il 1930 e il 1966. Ci sono legami tra questo libro e il discorso che si faceva sulla donna, e di nuovo parto da un qualcosa che ho vissuto personalmente, anche negli ultimi anni: in questo momento, girando per Tashkent, ci sono quasi più gru che non case. C'è un'esplosione, un processo che forse si è moltiplicato rispetto agli anni raccontati da Stronski. Questo ha portato e porterà certamente a un mutamento urbano, ma anche sociale, perché si passa da uno stile di vita tradizionale, come si diceva prima, verso qualcos’altro. Ma verso cosa esattamente?

 

MB: Ho scelto questo libro perché mi sembra faccia il punto sulla questione cui hai accennato, introducendo un altro tassello del discorso sulla modernità intesa come prodotto d'importazione. In questo caso l'elemento di importazione è rappresentato dai modelli abitativi.

C'è un’invenzione sovietica degli anni del dopoguerra - e quindi anni Cinquanta, Sessanta e Settanta - ed è l'idea che se si vuole trasformare dall'alto la vita della gente bisogna riuscire a cambiare quello che la gente fa nella propria vita quotidiana. Ne abbiamo visto emergere alcuni aspetti parlando degli altri libri: in questo libro, la vita quotidiana è intesa come i luoghi in cui le persone vivono, le loro case.

Quando lavoravo a Samarcanda avevo l'impressione di conoscere molte case senza esserci mai entrato, perché avevano dei precisi caratteri. Quando poi facevo lezione raccontavo di questa impressione, ovvero di riuscire a entrare in queste case a occhi chiusi, sapendo esattamente non solo dove avrei trovato la camera da letto, il salotto, il bagno, ma anche come era fatto il rubinetto del bagno e altri dettagli simili. Questa impressione è il frutto di una rivoluzione culturale sempre imposta, ma molto potente: significa che in tutto il territorio dell'Unione Sovietica le persone si alzano alla stessa ora, dallo stesso letto, nella stessa stanza, e raggiungono il bagno aprendo quello stesso rubinetto. Questo determina un’omogeneità gigantesca nei modi di vita.

Spostiamoci dalla Tashkent di oggi a quella degli anni del dopoguerra, fino alla metà degli anni Sessanta, e vediamo che lì, come a Samarcanda e in tutte le altre città antiche dell'Asia Centrale, quello che prevaleva era un modo di abitare tutto diverso, fatto di grandi famiglie che vivevano nella stessa casa, una casa fatta solo di un piano con un cortile comune, che era uno spazio abitato tutto l’anno, tranne che nei periodi più freddi. Questa tipologia abitativa delle grandi famiglie non c'entra nulla con la situazione che vi ho raccontato prima, che vede case e spazi totalmente standardizzati. Sorge allora il problema di come convincere la gente dell’Asia Centrale, che vive nel quartiere tradizionale, nelle case tradizionali, a entrare a far parte del mondo sovietico, anche dal punto di vista abitativo. Si tratta di una questione gigantesca, molto complessa, poiché le persone non hanno nessuna voglia, hanno abitudini diverse.

Il libro di Stronski racconta, da una parte, di come si comincia a ideare una città moderna e seriale, e di come s’inizia a costruirla; dall’altra parte, il volume racconta come a Tashkent questo passaggio avvenga in maniera brusca. L'aspetto brusco, questa volta, non è colpa soltanto dei sovietici, quanto piuttosto della natura, dal momento che nel 1966 ci fu un terremoto che distrusse parte della città vecchia facendo sostanzialmente il lavoro che i sovietici avrebbero voluto ma non potevano fare per timore di creare malcontento. Il terremoto diventò così l'occasione per ricostruire la città. I bulldozer tirarono giù le case danneggiate e ne ritirarono su di nuove, cercando di “modernizzare” interi quartieri.

Questo è un cambiamento sostanziale nella vita dell’Asia Centrale, ed è un cambiamento che a Tashkent avviene in modo violento, a causa del terremoto. In altre città avverrà in un modo più lento. La questione è che lo Stato aveva dalla sua parte la distribuzione degli alloggi: per ottenere un alloggio bisognava mettersi in lista di attesa e, a seconda dei meriti, attendere l’esito. Ovviamente, a essere distribuiti, erano solo alloggi di concezione moderna. Le famiglie avevano molti figli, e le case tradizionali non potevano più soddisfare l'esigenza di avere un tetto per tutti i componenti di una grande famiglia, magari di dieci figli, che a loro volta avevano la propria famiglia. Dovevano necessariamente spostarsi, cambiare casa. Le grandi famiglie locali furono costrette a separarsi: i figli, una volta sposati, che uscivano dalla vecchia casa iniziarono a spostarsi nelle nuove case in serie.

A poco a poco, senza il bisogno del terremoto, anche nelle altre città le famiglie iniziarono a trovarsi in un ambiente a dir poco disastroso rispetto al loro modo di vivere. Dovete tenere conto che le famiglie erano numerose e vivevano di rapporti sociali molto densi. Quella dell’Asia Centrale è una società in cui si accede al lavoro e alle risorse attraverso la relazione, e le famiglie tengono molto a mantenere relazioni, a costruirne, a rispettare le pratiche tradizionali, a celebrare le feste che accompagnano il corso della vita. Matrimoni, nascita dei figli, anniversari della morte di qualcuno, sono tutte occasioni per invitare a partecipare le famiglie del quartiere e tutte quelle che si conoscono. È una questione di status. E allora, se il prestigio delle famiglie si gioca su questi meccanismi, voi provate a immaginare cosa poteva dire all’epoca organizzare raduni simili in piccoli alloggi seriali incastrati in grandi case. Non era letteralmente possibile perché la gente non aveva lo spazio fisico per farlo.

Si cominciò così a vivere divisi: questo fu il grande cambiamento, la vera rottura con il passato, analoga, se volete, a quella del velo, una rottura dolorosa che venne fatta in nome del progresso “all'europea”, di cui lo strumento forte fu il partito comunista, l’anima di questa trasformazione, a cui le famiglie locali fecero ovviamente resistenza, non riuscendo tuttavia a fermarla. Il libro di Stronski tratta di un momento, di un periodo circoscritto, ma che in realtà riguarda anche il presente.

 

AT: Abbiamo parlato delle città e delle loro trasformazioni, però in realtà anche le campagne sono cambiate, e questo ci porta a parlare del quarto libro che hai scelto, quello di Kalinovsky, che ci sposta in Tagikistan. Come sono cambiate le campagne? Come si sono modificate?

 

MB: Le campagne, intese come luoghi di produzione del cotone, riguardano da vicino il Tagikistan, che è il paese di cui si occupa Kalinovsky. E quello del cotone, come detto, è un tema molto importante. In Tagikistan, una delle trasformazioni più grosse deriva dal fatto che nel periodo sovietico si tende sempre di più a spostare la popolazione verso le colture del cotone, che non sono molto attraenti, dal momento che nelle piantagioni si vive male e si guadagna poco. In più, il cotone ha una brutta caratteristica, ossia il fatto di poter essere venduto solo allo Stato. Se si producono pomodori, ad esempio, li si può vendere un po’ allo Stato e un po’ nei bazar, ma se si è costretti a produrre solo cotone ci si trova decisamente nei guai, dipendendo direttamente dai prezzi del cotone stabiliti dallo Stato. Lo Stato ha un grande interesse per il cotone, poiché l'industria tessile, ma anche quella militare in tempo di guerra, dipendono da quella produzione. Esso dunque preme affinché si produca cotone in grandi quantità e a bassissimo costo, ossia pagando molto poco i contadini: i contadini tagiki e uzbeki che lavorano il cotone rappresentano la parte più povera della società dell'Asia Centrale, o quantomeno dell'Asia Centrale meridionale.

Nei decenni, dunque, sempre più persone in Tagikistan vengono spostate dalle zone di montagna alle piantagioni di cotone nelle valli. Così queste persone non solo si trovano costrette a lavorare il cotone, ma si trovano anche sradicate da quello che facevano prima, dalla loro stessa vita.

Il libro di Kalinovsky si colloca in questo contesto e si concentra su un caso significativo: la costruzione di una diga che servirà a produrre energia elettrica. La diga rappresenta uno sconvolgimento ecologico che causa un grosso spostamento di persone. Il problema, insomma, è che ci sono delle scelte importanti che vengono prese dall'alto in funzione di interessi di sviluppo che hanno poco a che fare con quelli della popolazione del luogo, e che coinvolgono le persone sconvolgendone modi di vita, flussi migratori, eccetera. La modernizzazione è qui vista come creazione di nuove risorse, nuova ricchezza, e implica una presenza diretta dello Stato come costruttore: costruttore di case, come abbiamo visto prima, e ora costruttore di dighe in un luogo in cui l’acqua è una risorsa essenziale. Siamo perciò di fronte a uno Stato che investe, gestisce e trasforma. L'Unione Sovietica, d’altronde, è proprio questo: la trasformazione economica è opera essenzialmente dello Stato, è decisa, pianificata e costruita attraverso un'elaborazione che coinvolge tutto il territorio e mobilita investimenti e popoli.

Ma torniamo al micro-caso di Kalinovsky. Lo spostamento di popolazione comporta la nascita di una città moderna, la cui esistenza è strettamente legata agli investimenti che vengono fatti. Kalinovsky guarda al modo in cui lo Stato gestisce questo processo. La cosa interessante è che lo Stato non può essere una macchina perfetta. Lo Stato è fatto di rapporti umani, di gruppi di interesse, di clan che discutono dell'uso delle risorse, di interessi che stanno all'ombra del discorso generale. Lo Stato, nel suo agire, deve considerare anche i gruppi di potere locali, le famiglie che reagiscono alla sua presenza in una negoziazione informale continua.

Kalinovsky si occupa del problema della modernizzazione, guarda come funziona e ne vede le conseguenze, fa quindi un’analisi a livello micro e contemporaneamente affronta questioni ampie. Esiste un colonialismo interno sovietico? Queste politiche possono essere considerate politiche coloniali? Apre a questo discorso, che sarà poi ripreso anche nell’ultimo libro di cui parleremo.

Bisogna sottolineare un altro tema affrontato da Kalinovsky, quello dello sviluppo e del sottosviluppo. Le politiche di modernizzazione industriale che sono state realizzate hanno portato ad uno sviluppo reale? Hanno creato una ricchezza eguale? Hanno omogeneizzato come si voleva la vita in tutto questo Paese o no? La sua risposta tendenzialmente è no, nel senso che le politiche adottate hanno sempre e solo seguito gli interessi di una parte del territorio, e non dell'altra, creando così un profondo disequilibrio. Kalinovsky apre così a una discussione sul sottosviluppo e sui divari di crescita interni all’Unione Sovietica.

Dobbiamo guardare ai libri di Stronski e di Kalinovsky anche sotto un’altra ottica. L’Unione Sovietica costruisce un percorso di modernizzazione al proprio interno, ma allo stesso tempo ne fa anche un prodotto di esportazione. Tashkent, le grandi opere, l’idea stessa di modernità: sono concezioni e pratiche concrete che l'Unione Sovietica, negli anni Sessanta e Settanta, cerca di esportare in diversi del terzo mondo, soprattutto africani, ponendosi in qualche modo come un modello da seguire. L'Unione Sovietica si presenta in questi paesi come una via verso la modernità e l'industri. Ai paesi che escono dal colonialismo occidentale propone di guardare al suo esempio  e  di usare le sue capacità tecniche per creare uno sviluppo nuovo, diverso.

 

AT: Indubbiamente. E con questo hai già in parte introdotto anche quello che racconta l'ultimo dei volumi che hai scelto, quello di Abashin. Un testo che al momento è solo in russo, ma di cui presto avremo anche un’edizione italiana. Da quello che mi hai raccontato, e che adesso racconterai anche al nostro pubblico, il volume racconta di tutte queste trasformazioni in atto, ma da un punto di vista molto particolare, che è quello di un piccolo villaggio della bellissima Valle di Fergana. Ecco, come può una famiglia reagire a un cambiamento, a una trasformazione così radicale verso un modello di questo genere?

 

MB: Ho consigliato questo libro non solo perché sta per uscire in italiano, ma anche perché approfondisce la nostra comprensione, e in questo senso è un libro importante. Il titolo del libro di Abashin è “Kishlak”, che vuol dire villaggio. Il villaggio in questione si chiama Shobak, che si trova nel Fergana, una delle regioni più popolose dell’intero Uzbekistan. In questa regione l'attività economica più importante dai tempi dell'Impero russo a tutto il periodo sovietico è la coltivazione del cotone. È una grande valle che vive di cotone.

Nel periodo post-sovietico questa valle in realtà ha cercato di sviluppare altre attività economiche, quantomeno attività agricole che diversifichino la produzione e abbiano uno sbocco più interessante sul mercato, dal momento che, come abbiamo detto, coltivare il cotone non conviene, non rende. Si tratta di una regione che sta subendo delle trasformazioni, oltre che di una zona di confine, tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, e quindi fondamentalmente divisa fra tre Stati. E' una regione popolosa, attraversata da conflitti nella sua ridefinizione post-sovietica e luogo di tensione tra gli stati. Il Fergana inoltre è a pochi chilometri dal confine con la Cina, che è un altro importante attore nel gioco di interessi che l'attraversano la regione.

Sono stato lì nel primo periodo dopo la caduta l'Unione Sovietica. Molti facevano commerci che attraversavano i confini. Il fatto di poter raggiungere con facilità la Cina significava avere la possibilità di fare commerci informali con quel Paese. Se si volesse, si potrebbe raccontare la fine dell'Unione Sovietica proprio attraverso questi commerci, consistenti: in una direzione andavano in tir con i rottami di ferro e di acciaio delle fabbriche sovietiche ormai dismesse che venivano venduti a peso ai cinesi, e, dall’altra, dalla Cina arrivavano prodotti di consumo di ogni genere. In quel periodo in cui, dopo il crollo dell’Unione sovietica, ci si apriva al commercio c’era una forte domanda di consumo e l’industria locale in crisi non era in grado di soddisfarla. A quel tempo, ho vissuto a Samarcanda in casa di una signora tagika che faceva come mestiere la contrabbandiera. Partiva da Samarcanda e arrivava al fondo della Valle di Fergana, dove c’era un mercato informale, e poi tornava indietro con borse piene di prodotti cinesi che stipava nell’alloggio in cui abitavo, per poi venderli ai suoi clienti.

Prima di tornare al nostro libro, c’è un altro elemento importante di questa regione - oltre al cotone, al commercio, alle relazioni - che è bene considerare, ovvero il suo essere profondamente legata alle tradizioni, e nello specifico alle religioni. Dalle sue moschee, dopo la fine dell’Unione Sovietica, è partita una vera e propria rinascita religiosa che ha rappresentato una prima, embrionale, tendenza in opposizione al regime post-sovietico, soprattutto in Uzbekistan. Un tentativo di opposizione poi travolto da una grande repressione dei gruppi religiosi e una militarizzazione del territorio.  

Il libro “Kishlak” ha il grande merito di considerare le grandi questioni di cu i abbiamo discusso finora dal punto di vista di un piccolo villaggio e delle famiglie che lo abitano. Abashin sostiene che esiste una specificità sovietica nei processi di trasformazione, che non si tratta di un colonialismo. Abashin legge infatti le trasformazioni indotte dalla modernizzazione, considerando, ad esempio, la questione della famiglia, il ruolo delle donne, il culto dei santi, la trasformazione delle concezioni e delle pratiche islamiche. Legge le trasformazioni culturali, indotte dalla politica, soffermandosi sulla specificità che assumono in questa regione, in un solo villaggio.

Ritengo che questo libro sia veramente importante, perché fare ciò che ha fatto Abashin - ovvero guardare ai cambiamenti e alle trasformazioni culturali di una regione così vasta su un periodo così lungo - è davvero sorprendente. Nel farlo, Abashin ha unito sapientemente documenti di archivio, materiali, interviste, fotografie.  La sua ricerca etnografica si giova ovviamente naturalmente della conoscenza della lingua, di un lungo lavoro sul campo, della sensibilità indispensabile per decifrare il rapporto che esiste tra le interviste e le tracce del passato che esse stesse celano, di un'accurata lettura del territorio, dell'analisi delle attività economiche, e così via.

Per concludere, mi pare che, per i libri che ho presentato, si potrebbe anche fare il percorso contrario: il punto di partenza, o di arrivo, è la situazione attuale. Questa occupa l'ultima parte del libro di Abashin, dove si tratta dei mutamenti avvenuti dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Tra questi cambiamenti, non soltanto in Fergana, vi è l'apertura delle frontiere e l'avvio di una fortissima emigrazione. Famiglie tagiche e uzbeche, lasciano le campagne del cotone, mentre nelle città la crisi delle attività produttive e la paralisi dello Stato inducono i giovani a cercare lavoro altrove, soprattutto in Russia, ma anche in Europa occidentale e in paesi lontani, come la Corea. È la storia di tutti i Paesi poveri di oggi.

 

AT: Grazie. È stato un percorso molto interessante. Siamo passati dalla campagna alla città, per tornare nuovamente alla campagna. Ma non solo, perché abbiamo anche fatto un percorso all'interno della famiglia, soffermandoci su come si è trasformata la vita sociale in Asia Centrale. Per chiudere, ricordo che tutti questi libri saranno disponibili nelle biblioteche del nostro Ateneo. Grazie ancora.