Il ritorno delle diseguaglianze territoriali | Filippo Barbera

Chi è Filippo Barbera

Filippo Barbera

Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino e fellow presso il Collegio Carlo Alberto. Si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali. Tra le sue recenti pubblicazioni, ricordiamo: “Contro i borghi” (a cura di, con D. Cersosimo e A. De Rossi, Donzelli, 2022), “Metromontagna” (a cura di, con A. De Rossi, Donzelli, 2021). Fa parte del Direttivo dell'associazione Riabitare l’Italia (https://riabitarelitalia.net/RIABITARE_LITALIA/), è membro del Forum Diseguaglianze e Diversità e Presidente dell'associazione Forwardto (https://www.forwardto.it/).

“Centri e periferie”

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Centri e periferie

“Tracce di comunità”

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Tracce di comunità

“Riabitare l'Italia”

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Riabitare l'Italia

“Ricomporre i divari”

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Ricomporre i divari

Alessandro Coppola, Matteo Del Fabbro, Arturo Lanzani, Gloria Pessina, Federico Zanfi (a cura di), il Mulino

“Economia fondamentale”

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Economia fondamentale

Prof. Antonio De Rossi (ADR)
Buongiorno a tutti, siamo qui con Filippo Barbera a parlare di cinque libri, cinque libri molto importanti usciti in questi ultimi anni sul tema delle disuguaglianze territoriali. Filippo Barbera è professore ordinario di Sociologia presso l'Università di Torino, Fellow presso il Collegio Carlo Alberto e membro del Forum Diseguaglianze Diversità, una realtà molto importante di questi ultimi anni. È anche membro del Consiglio direttivo dell'associazione Riabitare l'Italia. Molte le pubblicazioni, anche qui davvero rilevanti in questi ultimi anni. Ma forse la cosa che mi piace sottolineare qui al Politecnico di Torino è il fatto che il professor Filippo Barbera, oltre ai temi propri della sociologia, delle diseguaglianze e delle diversità territoriali all'interno del nostro Paese, ha una sensibilità molto forte e profonda anche per quel che riguarda il rapporto tra le scienze sociali ed economiche e il tema dello spazio, del territorio. Lo stesso vale per il tema delle tecniche e delle tecnologie. È dunque una cosa molto importante, credo, questo avvicinamento tra le scienze sociali e le dimensioni territoriale e tecnologica.
Ecco, siamo a parlare di cinque libri con Filippo, cinque libri che ha scelto lui. Il primo è un libro di Gianfranco Viesti apparso poco tempo fa, molto importante, e credo che possa rappresentare il punto di inizio di questa discussione, perché riprende una questione importante: quella del rapporto tra centro e periferie, delle trasformazioni di questo rapporto, che è un tema che nella storia d'Italia, da Einaudi a Ginzburg, e molti altri autori, specie in questi ultimi 30-40 anni è sempre stato al centro dell'attenzione. Credo che sia giusto, appunto, partire da questo tema in particolare.

Prof. Filippo Barbera (FB)
Bene, grazie Antonio, grazie a tutti, grazie al Politecnico per l'invito. Sono molto contento, onorato di poter partecipare a questa puntata di Cinque Libri. Partiamo dal libro di Gianfranco Viesti. Intanto perché è un libro d'altri tempi, da un certo punto di vista è un libro che per estensione spaziale, temporale e anche tematica è una sorta di merce rara nel mercato intellettuale editoriale di oggi, che è molto specializzato. Bisogna quindi riconoscere anzitutto il merito a Gianfranco Viesti per aver tentato un'impresa così complessa. Il libro s'intitola Centri e periferie e riguarda il rapporto tra centro, o meglio centri, e periferia. Diciamo che, per farvi capire l'importanza del testo, posso mettere in luce tre questioni: la prima è che il libro è molto utile per mettere a fuoco come il rapporto centri-periferie è cambiato nel tempo. Si tratta di un rapporto che non ha avuto una forma costante nel corso dell'evoluzione storica, ma che è cambiato. Il focus del libro, in particolare, sono le regioni, specie quelle italiane. Diciamo così, per una veloce periodizzazione c'è stato un periodo di tentata convergenza tra i modelli di sviluppo e i tassi di crescita nelle regioni: la mancata convergenza era vissuta come un'eccezione, una deviazione da una tendenza generale. Queste regioni consistono in alcune parti del Mezzogiorno, alcune regioni spagnole come l'Estremadura, o comunque zone, diciamo così, “in ritardo di sviluppo” (si chiamavano con questa espressione non particolarmente felice). Si tratta dunque di regioni che rimanevano indietro, e questo rimanere indietro era letto come un'eccezione rispetto alla tendenza generale. Ecco, la cosa si è invertita ed è questo il primo punto interessante che mette in luce Gianfranco Viesti: la mancata convergenza o la polarizzazione, addirittura, non è più una eccezione rispetto a una regola generale, ma è la regola, è diventata la regola. Quindi Viesti si chiede: cosa è successo? E perché? Cos'è cambiato di così importante? Nel caso italiano sono cambiate molte cose. Si può dire che, nel periodo della convergenza, eravamo un Paese la cui specializzazione produttiva (il cosiddetto Made in Italy), dimensionale (le piccole e medie imprese), e per fase o componente (di quella particolare filiera), ha permesso una competitività importante. Tutto questo è entrato in crisi con il modello neoliberale, con l'apertura delle frontiere per la competitività. Quello che ha resistito è la filiera meccanica, che è situata in particolari regioni e non in altre. Questo ha così accentuato le dinamiche di polarizzazione in Italia. Ecco, dunque, il tratto costitutivo della prima dimensione di lettura di Viesti.
La seconda dimensione messa in luce da Viesti, particolarmente importante, è l'intervallo temporale analizzato: si tratta finalmente di un libro che rimette i tempi lunghi della storia al centro. Questo è anche un tratto significativo. Perché paradossalmente proprio la storia, che molto più di altre scienze sociali è una disciplina dei contesti spazio-temporali più lunghi, negli ultimi anni ha accorciato la vista, e ha ristretto l'attenzione per episodi, eventi, fenomeni con una finestra temporale molto più limitata. Questo è anche stato rilevato empiricamente da alcuni storici che hanno analizzato, pensate un po’, l'arco temporale delle tesi di dottorato: sono andati a vedere quale arco temporale coprivano le tesi di dottorato, in questo caso degli Stati Uniti. E hanno notato un progressivo restringimento di questo arco temporale. Ecco, Viesti va in controtendenza, e non è l'unico: c'è stato un ritorno della storia della longue durée, come la chiamava Braudel. Viesti riprende questa tradizione. Il libro è molto interessante da questo punto di vista perché ci offre veramente una periodizzazione di lungo periodo.
La terza ragione di interesse è che nel libro, che è molto focalizzato sulle regioni del Mezzogiorno e sulla polarizzazione italiana, ma non solo, si mette in luce quella che gli studiosi chiamano “la trappola dello sviluppo intermedio”. Cos'è la trappola dello sviluppo intermedio? Perché è alla base di queste dinamiche di polarizzazione? La trappola dello sviluppo intermedio riguarda, diciamo così, quelle regioni che si trovano in difficoltà di sviluppo perché hanno un costo del lavoro troppo alto per competere sulla cosiddetta “via bassa” (la competitività, che è quella via che comprime il costo e anche i diritti del lavoro) e non sono abbastanza innovative o specializzate dal punto di vista dell'innovazione tecnologica per seguire la “via alta”, e quindi rimangono intrappolate in questa forbice.
Ciò che è interessante è anche quello che manca nel libro di Viesti, e che invece gli altri libri in qualche modo ci dicono: il libro è focalizzato sulle regioni, e le regioni sono segnate, disegnate da confini amministrativi. Non sono necessariamente territori omogenei dal punto di vista dello sviluppo, non lo sono dal punto di vista del costruito, non lo sono dal punto di vista - soprattutto - delle risorse di capitale territoriale sedimentate, che permettono un'azione collettiva. Sono partizioni amministrative che a volte hanno un collegamento con le dinamiche di sviluppo endogeno, e a volte non ce l'hanno. Ecco, questa ripartizione regionale viene messa in discussione dagli altri libri, che guardano a un diverso livello di scala territoriale. Inoltre, gli altri testi guardano anche ad altre dimensioni. Il secondo libro, appunto, è Tracce di comunità, un libro di un sociologo che può essere di grande rilievo anche per studiosi come voi.

ADR
Certamente, Arnaldo Bagnasco è stato una figura di riferimento per molti di noi, anche nel mondo degli esperti concentrati sulla dimensione territoriale e spaziale. Tracce di comunità, insieme agli altri libri di Bagnasco, come stavi appunto dicendo, rimette dentro una dimensione geografica, territoriale, che non riguarda solamente le entità amministrative, ma anzi è proprio una ricerca - ad esempio sul tema dei distretti - anche su altre forme di aggregazione e di sviluppo. Per questo per noi è stato un libro molto importante: perché nel trattare il tema dei distretti, comunque, ha messo in evidenza l’esistenza di forme di territorialità che per tutti i nostri lavori sono state davvero importanti.

FB
Cominciamo infatti dal titolo: perché Tracce di comunità? Vedete questa figura in copertina? Si tratta delle particelle registrate da un rivelatore dopo la disintegrazione di un atomo. L'atomo rappresenta la comunità, che si disintegra, e le tracce sono le dimensioni di analisi del libro, le tracce che la comunità lascia. Quali sono le tracce che la comunità lascia nel nostro mondo? Bagnasco ne nomina alcune: l’identità, la reciprocità e la fiducia, principalmente. Contiamo che questo è un libro del 1999, un libro che potremmo dire datato: i libri invecchiano molto in fretta purtroppo, però i libri belli non invecchiano mai, e questo è ancora molto attuale. Ricordo una recensione, quando uscì il libro, di Giacomo Becattini sul Domenicale del Sole 24 Ore, che lo definì una chicca. Questo libro è veramente una chicca. Anzitutto perché, come dicevo, è attuale e ci permette di riconsiderare il concetto di comunità alla luce di alcune questioni importanti che il mondo sta vivendo, soprattutto della disamina critica del concetto di comunità. Il concetto di comunità - ci dice Bagnasco, come anche gli studiosi più attenti - è un concetto scivoloso, pericoloso, che può portare a chiusure identitarie, che può mettere in primo piano il nativismo rispetto all'apertura. Ciò non è necessario, e Bagnasco lo dimostra, perché abbiamo molti esempi nella storia economica italiana (tu citavi il caso dei distretti industriali) in cui la dimensione comunitaria, quella di mercato, quella della coesione e quella dell'apertura alla diversità si sono embricate come le travi di un tetto, sostenendosi e mantenendosi reciprocamente. Questo è il modo per utilizzare il concetto di comunità, ed è lo stesso modo in cui, ad esempio, lo utilizza Bruno Latour in un libro molto più recente, Tracciare la rotta, che è un libro che parla della crisi ambientale. Latour dice che dobbiamo ritrovare il nostro legame non tanto con il locale ma col terrestre. Ecco, anche Bagnasco pone le basi per questo tipo di ragionamento: il terrestre è l'insieme di quegli attori, persone, istituzioni, ma anche oggetti, viventi non umani, filiere, infrastrutture verdi, infrastrutture e materiali. Tutto questo costruisce l'ecosistema locale di cui le persone sono parte.
L'idea di comunità che Bagnasco delinea in questo libro è, in qualche modo, prodromica rispetto all'evoluzione successiva - ossia contemporanea - di cui il libro di Latour è un esempio. Quello che Appiah chiama il “cosmopolitismo parziale”: io non sono chiuso, ma non sono neanche privo di appartenenze. I due errori da evitare: la chiusura e la rinuncia alle nostre appartenenze, alle nostre tradizioni, alle risorse di capitale sociale, simbolico, culturale che la storia consegna ai territori. L’esempio dei distretti è da questo punto di vista illuminante. Potete allora leggere in filigrana una contrapposizione e una continuità con il testo di Gianfranco Viesti che citavo prima: Viesti, come anche molti economisti, legge nella debolezza delle strutture, della specializzazione dimensionale, soprattutto settoriale, una delle ragioni della polarizzazione delle filiere del Made in Italy che poi sono andate in crisi, non sono riuscite ad innovare - a parte alcuni casi - tirando giù le regioni dove queste filiere erano più concentrate, dove sono mancate adeguate politiche di sviluppo. Anche Bagnasco parla dei distretti industriali, però ne parla in un modo diverso, e li qualifica non tanto come modelli produttivi, ma come livello di analisi territoriale. Questo cambia tutto: i distretti non sono soltanto delle filiere di un certo tipo di prodotto, ma sono dei modi di tenere in squadra - Bagnasco scriverà anni dopo un libro intitolato Società fuori squadra - economia, politica e società. I distretti sono da questo punto di vista un esempio di società locale ben integrata e ben funzionante, che teneva insieme dimensioni comunitarie di coesione, tradizione e appartenenza (chi parla di comunità non deve aver paura di utilizzare questo termine), pur rimanendo, nel contempo, non ostili all'apertura, all'integrazione, al dialogo con l'alterità, un’alterità anche molto radicale.
La seconda dimensione dei distretti letti da questo punto di vista è proprio la definizione standard di distretto. Cos'è un distretto industriale (marshalliano)? È una comunità di persone, di imprese che stanno in un certo territorio governato da certe istituzioni. Le persone: guardate, tutto questo si è perso nel dibattito sulla competitività e sui cluster di impresa (lo si chiama “il diamante della competitività”). Il tema delle persone e della loro vita quotidiana - ed è questo che ci permette di collegarci al terzo libro - è completamente sparito. L'abitabilità dei luoghi. Ecco, questo è uno dei temi che ha unito me e Antonio [De Rossi] nel libro che lui ha curato e di cui adesso farò una breve presentazione. Anche questo è un librone come il libro di Viesti. Non è un libro a voce unica ma un libro polifonico, che si intitola Riabitare l'Italia. La prima edizione è del 2018, poi andata esaurita. A queste ne sono seguite altre cinque, una che abbiamo curato insieme, Metromontagna, e poi Contro i borghi, che abbiamo curato insieme ad altri amici.

ADR
Sì, un libro - ora non spetta a noi dirlo - che è diventato un po’ il classico della letteratura scientifica sul tema delle aree interne. Ma non solo. Perché il libro non si intitola - abbiamo avuto una lunga discussione su questo - “Riabilitare l'altra Italia” bensì Riabitare l'Italia. Questo libro, pur muovendo dai margini del Paese, dalle aree periferiche, dalle aree interne e montane, è un libro che tenta in fondo di costruire una nuova rappresentazione del Paese. Una nuova rappresentazione del policentrismo territoriale, il policentrismo storico: anche qui, quindi, torna il tema delle lunghe durate, delle società locali, delle persone e degli abitanti. Il tema dell'abitabilità di questi territori è il tema centrale, per cui si tratta di un libro che muove dal margine, ma per cercare di riconfigurare - oltre i tanti luoghi comuni che continuano ad affliggere il racconto di questo paese da decenni, che sono sempre un po’ uguali a sé stessi - una nuova rappresentazione del Paese, un nuovo immaginario. Sappiamo che l'egemonia sull'immaginario consente in qualche modo di controllare anche le politiche e le relative modalità di finanziamento. Quindi, un libro, tra l'altro, con tanti autori importanti, da Fabrizio Barca, Carmine Donzelli, Pier Luigi Sacco. Insomma, tanti autori importanti che si sono riuniti intorno a questa avventura. Tu lo poni come terzo libro, un po’ al centro di questo gruppo di pubblicazioni, e credo che anche qui il tema della diseguaglianza territoriale (che poi è il titolo di questa nostra presentazione) è assolutamente centrale, fondamentale, come anche tutte le questioni che finora hai evocato.

FB
Sì, effettivamente è il libro mediano nella distribuzione dei cinque. La terza posizione, quella che spacca in due la distribuzione in parti uguali. È un libro che ha segnato in modo importante il dibattito, è un po’ il punto di riferimento del dibattito territoriale italiano. Anche qui ci sono tre dimensioni. La prima, il policentrismo, cioè la diversità territoriale: questo è un libro che ha al centro l'idea di diversità territoriale, che è un'idea non particolarmente originale, dal momento che sulle aree interne la politica nazionale interna ha sempre detto che il paradosso dell'Italia è che è un Paese unito dalla diversità. Siamo un Paese con una grandissima diversità interna, interconnessa, che si gioca anche a livelli di scala territoriale molto ampia. Quindi, territori molto piccoli: tra due valli contigue si parlano dialetti a volte diversi, ci sono quattro modi di cucinare gli agnolotti, ci sono nicchie ecologiche diverse. Però questa diversità unisce, perché i problemi di un sindaco di un'area interna del Mezzogiorno non sono così diversi dai problemi di un sindaco di un’area interna della Val Susa. Dal punto di vista dei vincoli sono sottoposti alla stessa dinamica di contrazione. Perché va riabitata l’Italia? Perché è un'Italia in contrazione. Cosa vuol dire in contrazione? Anzitutto, lo spopolamento. L'Italia, il Paese nel suo insieme e queste aree sono soggette a una dinamica di depopolamento importante, che in alcuni casi purtroppo mette il "timer" a interi paesi. Ci sono paesi che stanno scadendo dal punto di vista del loro orizzonte di vita, cioè paesi che si stanno svuotando e si svuoteranno.
La seconda dimensione è la contrazione istituzionale (lo vedremo poi meglio nel prossimo libro). Ci sono territori che non hanno rappresentanza. Noi abbiamo distrutto le istituzioni intermedie, cioè quelle istituzioni prossime ai territori del margine. Abbiamo questi corpaccioni enormi che sono le Regioni, abbiamo cancellato le Province, abbiamo cancellato le comunità montane. Il disegno dei collegi elettorali non dà voce alle aree interne, ai territori del margine che non sono rappresentati istituzionalmente e politicamente. Questo è un altro dei temi che il libro affronta. E poi il grande tema a cui accennavo prima, il tema dell'abitabilità quotidiana. I territori si riabitano a partire dalle persone che nei territori vivono o vorrebbero vivere. Quindi, non solo coloro che vi nascono (è una cosa forte, ma va detta): i territori non sono solo delle persone che vi sono nate. Sono delle persone che in quei territori vogliono investire dal punto di vista biografico, dal punto di vista relazionale, dal punto di vista lavorativo. E quindi il compito di una politica territoriale è anzitutto costruire l'abitabilità quotidiana, quella che poi, nell'ultimo libro, chiameremo “l'economia fondamentale dei luoghi”, cioè l'economia dei diritti di cittadinanza. Noi siamo tutti cittadini: voi che vivete in città, voi che vivete nelle aree interne, che vivete nelle aree montane, voi che vivete in quella che poi chiameremo l'Italia di mezzo, nella grande, piccola e media provincia italiana. Formalmente i nostri diritti di cittadinanza sono uguali, però se voi e i vostri figli state a 40 minuti da una scuola, a 50 minuti da una stazione, o a 20-25 minuti dal primo pronto soccorso, i vostri diritti di cittadinanza non sono uguali a quelli di chi vive vicino all'infrastruttura economica della cittadinanza.
Cominciate allora a pensare a mappe territoriali che segnalano la più o meno giusta distribuzione delle infrastrutture dell’abitabilità quotidiana. Cominciate a vedere non solo le montagne, non solo le aree interne, ma anche i piccoli paesi di provincia a cui sono stati tolti i servizi. Cominciate a vedere lo “sprawl urbano, fenomeno che non è così diffuso nel nostro Paese, ma che comincia a esserlo: case e città che crescono attraverso l'edificazione. Quindi, case per le persone ma senza servizi a ridosso di queste case. Pensate a Roma oltre il Grande Raccordo Anulare. Le aree interne, definite come le aree distanti dai servizi essenziali, anche per questo sono dentro i confini amministrativi delle grandi città metropolitane. Una città che cresce attraverso la finanziarizzazione del capitale edilizio, ma non si porta dietro i servizi è una città che disegna una mappa di ingiustizie dal punto di vista dei diritti di cittadinanza. In questo testo, quindi, i territori sono concettualizzati e poi misurati usando più dimensioni: quella economica (quindi l'impresa), quella istituzionale (come dicevo prima dei livelli di governo), quella materiale (l'abitabilità, il costruito). Questa è un'altra grande risorsa di Riabitare l'Italia: che è veramente un libro interdisciplinare dove architetti, urbanisti, antropologi, storici, sociologi, economisti, geografi insieme ragionano su come ricostruire la cosiddetta grana fine dei territori.
Torniamo al libro di Viesti e guardiamo a un livello diverso, più basso, più piccolo, a un livello dove possiamo veramente cogliere una micro o meso-omogeneità interna alle regioni stesse. Pensate alla vostra regione (se siete piemontesi io sto registrando dal Piemonte, ma immagino che questo video non sarà visto solo in Piemonte) e alla diversità interna che la caratterizza. Pensate al luogo in cui siete, e pensate a quanto siete più o meno vicini o distanti da un servizio pubblico essenziale per l'educazione dei vostri figli, per la vostra salute o per la vostra capacità di muovervi nello spazio senza l'auto privata e con un servizio pubblico. Ma pensate anche allo stato di connessione delle infrastrutture, alla vostra capacità di muovervi con l'auto, dato lo stato delle infrastrutture. O pensate anche alle infrastrutture digitali, a quelle immateriali che in questo libro hanno un ruolo importante.
Ultimo tema di cui parla questo lavoro sono le popolazioni, ossia: riabitare attraverso quali popolazioni? Questo sarà un tema che affronteremo poi meglio in Metromontagna, libro che abbiamo curato io e Antonio, ma che qui è già presente in nuce e sviluppato in alcuni capitoli. I territori, come vi dicevo, non sono di chi vi nasce, ma sono di chi li abita. Riabitare un territorio non vuol dire avere la residenza, il citofono, il nome scritto. Riabitare è una cosa complessa. Riabitare un territorio significa mettere la propria biografia, il proprio capitale biografico, il proprio orizzonte temporale di investimento - proprio della propria famiglia - a servizio dell'abitabilità di quel luogo. Quindi, fare di quel luogo un luogo elettivo e vocazionale per lo sviluppo proprio, dei propri figli, della propria famiglia e della propria identità professionale. Questo non si può fare senza, appunto, politiche pubbliche rivolte alla abitabilità quotidiana. Questo tema rientra nel penultimo libro di cui io voglio parlare, che è Ricomporre i divari. Ancora una volta si tratta di un libro curato da diversi autori, alcuni dei quali hanno collaborato anche a Riabitare l’Italia. Sono colleghi e amici, più in questo caso urbanisti e architetti - qui abbiamo lo sguardo dell'urbanista e un po’ del geografo, con innesti ogni tanto di economisti e sociologi. Questo libro ci parla dei divari che caratterizzano il territorio italiano.

ADR
Appunto, un libro anch'esso importante. Credo che, soprattutto rispetto alle cose che sta dicendo Filippo, ci ricordi un tratto essenziale della nostra Costituzione, che è la seconda parte del famoso articolo 3, quando si dichiara che ogni persona deve avere il diritto di poter sviluppare le proprie caratteristiche, le proprie vocazioni, i propri talenti, sia a livello individuale sia dentro una collettività. E questo è un tema importante, che attraversa un po’ tutti questi libri, perché fa uscire dallo stereotipo il fatto che la periferia e la marginalità nascano da una condizione geografica, come se fosse qualcosa di stabilito una volta e per sempre, una sorta di determinismo geografico. Questo volume ci porta a ragionare, come ricordava bene prima Filippo, proprio dentro i territori, dentro le questioni dell'abitabilità, dentro lo spazio, dentro il sistema delle infrastrutture sociali, culturali, economiche dei territori. Ricomporre i divari - che vede appunto tra i curatori Arturo Ranzani, Alessandro Coppola, Matteo Del Fabbro, Gloria Pessina, Federico Zampi - è un libro importante perché nasce nell'alveo del lavoro fatto dell'associazione Riabitare l'Italia, ma anche in rapporto al Forum Diseguaglianze e Diversità. E quindi è un libro che tratta il tema delle diseguaglianze, ma declinandolo dal punto di vista della dimensione territoriale. E questo credo che sia un tema nuovamente da sottolineare, perché abbiamo avuto per lungo tempo una sorta di tradizionale separazione tra le discipline che si occupano dello spazio, della dimensione fisica e, dall'altro lato, le scienze sociali economiche che hanno praticato anche per lungo tempo - come negli esempi di Bagnasco e Viesti - una trattazione a-spaziale, a-fisica dei fenomeni economici del territorio italiano. Ecco quindi che questo libro risulta, appunto, una pubblicazione importante.

FB
Anche in questo caso segnalo un paio di cose che caratterizzano il volume. La prima è l'enfasi su quella che - in particolare grazie al lavoro di Arturo Lanzani e del suo gruppo - chiamiamo “l'Italia di mezzo”. Cos'è l'Italia di mezzo? Prima abbiamo parlato di aree interne, aree lontane dai servizi, spazialmente marginali, zone correlate, anche se non del tutto sovrapposte, alle aree montane. In sostanza, le aree lontane dai servizi di cittadinanza. Questa è un'Italia. Poi c'è l'Italia delle grandi città, che in Italia sono poche. Noi non siamo un Paese di grandi città: abbiamo tre grandi città Milano - la cui dinamica è completamente non italiana (bene che ci sia, ma non può essere un modello per il Paese) -, Napoli e Roma. Sostanzialmente sono queste le città grandi. Nessuna di queste è una città globale: vista dall'Europa, Milano è una buona/media città europea; vista dall'Italia, Milano sembra New York. Tuttavia siamo poi un Paese di città medie, piccole, e di città medie che fanno da perno ad aree più vaste. Ecco, pensiamo in Piemonte a Biella, Alessandria, Novara, a tutto il tessuto delle città medie e storiche italiane che potenzialmente sono perni funzionali di aree vaste ma non hanno gli strumenti regolativi, urbanistici, di policy e soprattutto di governo territoriale. Questo è un pezzo dell'Italia di mezzo (non è l’unico ma è importante), gli altri due sono le “frange metropolitane”, come le chiama Arturo Lanzani (le conurbazioni, i pezzi di città si sono sviluppati intorno ai grandi centri urbani). È il cosiddetto “continuum urbano rurale”. Quando io e Antonio parliamo di "metro-montagna" si parla di “metro-ruralità”. Pensate a questi territori dove campi, cascine, paesi, viadotti, mucche sono nello stesso spazio fisico. Ecco, questa è l'Italia di mezzo. È una categoria interessante che non riguarda le regioni mediane. C'è un modo di parlare di Italia di mezzo - quello tipico dei sociologi economici - che riguarda la “terza Italia”, le regioni del centro e un pezzo del nord-est. Il livello di scala è diverso: guardiamo il territorio a un livello di grana più fine. La mappa dell'Italia di mezzo configura una mappa nazionale: abbiamo l'Italia di mezzo del Nord est, del Nord ovest, del Centro e del Sud. Molto interessante questa lettura, complementare alla lettura di Riabitare, che in realtà è il frutto generato dalla tensione creativa tra il modo di leggere l'Italia in base alle aree interne e il modo di leggere l'Italia basato sul policentrismo territoriale dell'Italia di mezzo. L'Italia di mezzo dunque è un’area produttiva (in termini percentuali ospita gran parte del nostro tessuto produttivo), è l'Italia dei Comuni, che sono storicamente il livello territoriale col quale si identificano gli italiani.
È questo un tema importante: per governare i territori nel modo corretto bisogna ripartire dai Comuni, ci dice questo libro. Dai Comuni piccoli e riuniti da aggregazioni municipali. Bisogna ritornare a un livello di governo del territorio che è anche storicamente coerente con lo sviluppo identitario simbolico del Paese. Noi non ci sentiamo piemontesi. Ci si può sentire a volte del Nord o del Sud, ma di sicuro l'identità regionale è fiacca. I toscani si sentono pisani, fiorentini, livornesi. Lo stesso vale per gli abitanti di altre regioni. Le Regioni sono costruzioni recenti, tutto sommato artificiali, non legate allo sviluppo storico del Paese. I divari si ricompongono anzitutto ricomponendo i livelli di governo del territorio italiano, ripartendo dai Comuni, inserendo i municipi come livelli intermedi, restituendo risorse, funzioni e legittimazione politica. Se guardiamo alle riforme territoriali e amministrative fatte negli ultimi anni, la più importante, quella delle città metropolitane, cosa ci consegna? Ci consegna un livello di governo del territorio privo di legittimità politica. Perché il sindaco della Città metropolitana non è un vero sindaco, non ha legittimità politica (viene nominato, non viene eletto): per il modo in cui è stato scelto, viene scelto in base al tipo di legittimazione simbolica e al tipo di risorse. Tra territori, i divari si ricompongono anzitutto provando a chiudere queste faglie territoriali che riflettono il modo in cui l'architettura del governo territoriale è disegnata nel nostro Paese.
Un terzo tema che emerge in filigrana da questo libro molto significativo è il rapporto tra territorio e transizione ecologica. La transizione ecologica è un tema globale, ma che va messo a terra: si parla infatti di territorializzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Sono soprattutto i territori e le città a poter gestire questa transizione. E badate che questo non è privo di contraddizioni e di conseguenze. Pensate (è un tema che sta a cuore ad Arturo Lanzani, uno dei curatori) alla Pianura Padana, il cuore produttivo del Paese, che però è anche una bomba ecologica, è uno dei luoghi più insalubri, una grande pianura fertile che è diventata uno dei luoghi più inquinati del contesto europeo. È anche un luogo dove certi prodotti sono diventati interessi importanti. Quindi, come intervenire sull'equilibrio tra tali dimensioni produttive e di transizione ecologica? Ecco, il testo fornisce alcune indicazioni e anche in questo caso rimette un po’ al centro il tema dell'ultimo libro di cui sto per parlarvi, che come vedete non ha un autore - cosa importante, interessante nel panorama accademico contemporaneo, che ci obbliga a essere autori e proprietari di singoli pezzi - ma è scritto dal Collettivo per l'economia fondamentale.

ADR
Ultimo testo, testo anch'esso importante: il sottotitolo di Economia fondamentale è Le infrastrutture della vita quotidiana, quindi anche qui tocchiamo temi che abbiamo già visto precedentemente. Di fronte a un contesto contemporaneo dove ormai anche la stessa riproduzione del corpo sociale come diversità diventa praticamente impossibile, dove non riusciamo a ricostituire gli elementi base della vita - come possono essere l'acqua, l'aria e via dicendo - emerge qui un tema fondamentale: il capovolgimento di quella che è stata la visione economica degli ultimi 35-40 anni. Si tratta, appunto, dell'economia fondamentale intesa come infrastruttura della vita. Anche questo libro sorregge dunque una serie di tesi importanti che sono trattate in tutti i libri che abbiamo trattato, applicando però questo specifico focus. Questo grazie a un collettivo di dimensione e di valenza internazionale, che affronta alcune questioni che oggi crediamo prioritarie. Oltre a fornire l'immagine della ricomposizione di divari delle diseguaglianze, è infatti un libro propositivo su una riconfigurazione delle categorie economiche rispetto al mondo produttivo e alla loro dimensione territoriale.

FB
Esattamente, l'economia fondamentale è l'economia della vita quotidiana. Visualizziamo: voi vi alzate la mattina e mettete in essere una sequenza di gesti in modo riflessivo, routinario, non pensato, non calcolato. Gesti che funzionano perché danno accesso ad alcuni beni e servizi fondamentali che voi date per scontati in quanto cittadine o cittadini di quel luogo: accendete la luce, aprite l'acqua, vi fate il caffè, controllate la posta elettronica, se fa freddo d'inverno accendete i termosifoni. L'insieme di quelle cose che diamo per scontato e della cui rilevanza ci accorgiamo quando mancano (pensiamo alla pandemia, pensiamo alla crisi energetica). Quando vengono meno questi beni e servizi, che diamo per scontati, ci ricordiamo innanzitutto dei lavoratori essenziali (vi ricordate che li chiamavamo così durante la pandemia? Poi ci siamo di nuovo dimenticati). Sono lavoratori essenziali perché sono tanti, circa il 40% della forza lavoro nei paesi europei stando alle analisi con i dati Eurostat che abbiamo fatto noi. Lavorano in quei settori spesso poco esposti alla concorrenza, spesso regolamentati, spesso con una produttività non elevatissima, ma sicuramente non competitivi e non produttivi in termini di grande valore aggiunto (come i settori glamour dell'high tech in cui siamo stati abituati a pensare in questi decenni). Ecco, quando manca questa economia fondamentale ci accorgiamo della sua importanza. Perché è importante parlare delle diseguaglianze territoriali? Perché - come dicevo prima - ci sono aree geografiche che sono lontane dall'economia fondamentale, dove le persone vivono lontane dai servizi essenziali. Aree dove chiude l'ultimo bar, chiude la scuola, chiudono i servizi pubblici e privati essenziali, la panetteria. L'economia fondamentale è anche privata, è anche il piccolo commercio di prossimità, il negozio non scalabile (noi abbiamo fatto il caffè in Italia, il modello Starbucks l'hanno fatto gli americani, ed è un'altra cosa). Abbiamo bisogno di servizi vicini alle persone, se vogliamo abitare un Paese con le rughe fatto come il nostro. E quindi l'economia fondamentale è l'economia, appunto, della vita quotidiana che, quando è distribuita in modo iniquo nello spazio, genera i divari di cui parlavamo prima.
Perché è fondamentale per il territorio? Allora, questo è importante. La traduzione che abbiamo scelto (parlo del collettivo per l'economia fondamentale, che se vi interessa trovate in rete su foundationaleconomy.com, dove potete scaricare paper e rimanere aggiornati su appuntamenti, articoli ed eventi) sarebbe “economia di base”. Ossia, l’economia che costituisce in termini architettonici, diciamo così, costruttivi, le fondamenta dell'edificio e poi, quando è su fondamenta solide, pone le basi degli altri piani: il piano del mercato della competitività e anche il piano, se vogliamo, della finanza e del grande capitalismo. Senza un'economia di base solida, le società - e in particolare la società locali - non mantengono quella necessaria coesione, quel grado minimo di uguaglianza che permettono alle società stesse di prosperare. Ma oltre a questa, c'è un'altra ragione: l’economia fondamentale è importante per il territorio perché è per definizione vicina alle persone, spazialmente vicina. I servizi dell'economia fondamentale devono essere accessibili spazialmente, oltre che economicamente. Se voi volete bere l'acqua dovete avere il rubinetto vicino, è una tautologia. Non ci può essere un'economia fondamentale lontana. Quindi, è un'economia certamente multiscalare. Tutto è multiscalare: l'informazione di cui disponiamo, l'acqua che beviamo, l'elettricità. Tutto connette il locale con il globale, diciamo così. Però l'economia fondamentale è vicina ai territori, arriva nelle case delle persone, e per questo chiama in causa modelli di regolazione locale che sono un po’ refrattari a filiere estrattive troppo lunghe.
Un caso interessante - su questo magari Antonio può dire una nota in chiusura - sono proprio le comunità energetiche. Ecco, per fare un aggancio sull'attualità, si sono sviluppati negli ultimi anni dei sistemi di regolazione dell'energia territorialmente localizzati che producono, distribuiscono e consumano energia attraverso sistemi rinnovabili. Le comunità energetiche rinnovabili sono veramente un caso tipico di regolazione locale dell'economia fondamentale.

ADR
Esattamente, ci sono in corso nel Paese, dal punto di vista delle comunità energetiche, molte sperimentazioni anche dal basso. E questo è un tema sicuramente interessante, perché è un tema che - oltre alla dimensione energetica - rappresenta anche un modo per costruire una nuova dimensione comunitaria e territoriale che è assolutamente importante rispetto a un tema centrale come quello energetico. È anche, ovviamente, un tema di progressiva autonomia rispetto a una questione che è sempre stata centrale in tutta la storia umana, che apre a delle dimensioni molto interessanti. Quello su cui però voglio finire come battuta è un'ultima domanda: secondo te questi cinque libri - cui potremmo affiancarne altri - che in parte abbiamo anche citato, costruiscono una geografia di ricerca che affianca dimensione spaziale e socio-economico-culturale con particolari caratteri di originalità?
Il tema della commistione tra le diseguaglianze sociali e quelle territoriali oggi mi sembra certamente toccato anche al livello internazionale. Conosciamo molti casi, oggi, di dibattito sullo spopolamento dei territori in Spagna, sulle politiche che si fanno in Cina sui villaggi rurali e via dicendo. Però mi sembra anche che disegni una sorta di specificità di questo nostro dibattito, e penso sempre a quando Pierluigi Sacco, in Commissione Europea sulla cultura, diceva “se oggi c'è un dato che ci viene riconosciuto come originale degli italiani è il tema legato alla rigenerazione sociale su base culturale”: è lì che l'Italia sta facendo delle cose che hanno interesse e specificità anche per gli altri Paesi. Non credi che, appunto, questi cinque libri tocchino e vengano un po’ a perimetrare un tema che sta prendendo sempre più corpo nel dibattito del Paese?

FB
Sì. Ricordo un aneddoto da questo punto di vista. Quando è nato il collettivo per l'economia fondamentale, i colleghi inglesi, in particolare la scuola di Manchester e quella gallese di Cardiff, erano molto interessati all'Italia, proprio per questa ragione: c'era una varietà di esperimenti locali di rigenerazione, di filiere, di comunità, di modelli di impresa, modelli insediativi. Una realtà, appunto, così varia, connessa ai fabbisogni dell'infrastruttura, della vita quotidiana oltre che dei modelli produttivi: un laboratorio di ricerca e di analisi, di collaborazione. Quindi sì, la prima risposta è certamente sì. Il cosiddetto fermento socio-territoriale. Chi ha esperienza di lavoro, di terza missione e di ricerca, ma anche di didattica nelle aree interne - come abbiamo io e Antonio - viene ogni volta a contatto con esperienze di grandissimo valore e interesse. Qual è il punto? Di nuovo, che queste esperienze non scalano, non bucano le istituzioni e non diventano offerta politica. Queste tre cose: non scalano, non bucano le istituzioni e non diventano offerta politica. Quando entrano negli immaginari, entrano attraverso i media. Quindi quando si parla di riabitare la montagna si parla del figlio del notaio che diventa pastore. Che va bene, c'è pure quello - noi siamo diventati una scuola per la pastorizia - ma non è soltanto quello. Chiuderei dunque con questo interrogativo: in che modo la ricchezza, la diversità, la varietà, l'attivismo civico, produttivo, sociale, culturale che caratterizza la diversità territoriale italiana può scalare, diventare un fatto istituzionale e diventare offerta politica?
Allora, grazie ancora per l'invito. Spero che sia stato interessante per chi ha ascoltato. I libri che ho citato li troverete disponibili nella biblioteca del Politecnico. Ancora Grazie al Politecnico e a tutti i tecnici che hanno lavorato alla realizzazione di questo evento.

ADR
Grazie.