Giappone: appunti sulla bellezza | Rossella Menegazzo

Chi è Rossella Menegazzo

Rossella Menegazzo

Dal 2012 è Professoressa associata di Storia dell’arte dell’Asia Orientale presso l’Università degli studi di Milano, dopo essersi laureata e aver completato il Dottorato di ricerca in Studi Orientali (Storia dell’arte giapponese) presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Accanto alla partecipazione e all’organizzazione di convegni internazionali, è curatrice di diverse esposizioni e cataloghi sull’arte, la fotografia e il design giapponesi in collaborazione con le maggiori istituzioni museali italiane ed estere. Tra le più recenti: “Enchanted Worlds: Hokusai, Hiroshige and the Art of Edo Japan” (Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki, Auckland, Nuova Zelanda, 2020); “Hiroshige. Visioni dal Giappone” (Scuderie del Quirinale, Roma 2018, catalogo Skira); “Il rinascimento giapponese. La natura nei dipinti su paravento dal XV al XVII secolo” (Gallerie degli Uffizi, Firenze 2017, catalogo Giunti); “Hokusai Hiroshige Utamaro” (Palazzo Reale, Milano 2016, catalogo Skira).

Tra i volumi pubblicati: WA. L’essenza del design giapponese (Phaidon/L’ippocampo 2014 ed. it.; Phaidon 2014 ed. ingl., 2017 ed. fr.; Bijutsushuppan 2017 ed. giap.) e LOST JAPAN. Felice Beato e la fotografia di Yokohama nell’Ottocento (Electa, 2017, ed. it./ingl.).

Collabora con diverse testate culturali italiane. Nel 2017 è stata insignita del Premio del Ministero per gli Affari Esteri del Giappone.

"La storia di Genji"

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Murasaki Shikibu, La storia di Genji

"Ore d’ozio"

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Kenkō Hōshi, Ore d’ozio

"Libro d’ombra"

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Tanizaki Jun’ichirō, Libro d’ombra

"La struttura dell’iki"

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Kuki Shūzō, La struttura dell’iki

"Ore Giapponesi"

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Fosco Maraini, Ore Giapponesi

Mauro Volpiano: Buongiorno. Quello di oggi è un incontro con il Giappone e la sua straordinaria letteratura, ma anche un incontro con la nostra ospite: Rossella Menegazzo, docente di Orientalistica e di Arte Orientale all'Università degli studi di Milano, dove si occupa di campi di studio che vanno dall’ukiyo-e alla fotografia. Si è occupata per esempio di Felice Beato, di grafica, e molto anche di design: ha studiato dunque nel dettaglio il rapporto dialettico tra il Giappone e l'Occidente, ha soggiornato e soggiorna molto in Giappone. Vorrei ricordare, tra i libri della Professoressa Menegazzo, “WA. L'essenza del design giapponese, tradotto anche in Giappone.

Oggi tu ci proponi un incontro, un'introduzione alla cultura giapponese attraverso cinque libri. Si tratta di cinque libri che sono molto diversi tra di loro per forme narrative, per cronologia, ma che in sostanza ci aiutano tutti a capire bene il Giappone: questa straordinaria dialettica tra l’innovazione e la tradizione, tra la raffinatissima cultura visiva e letteraria e l’inesauribile curiosità per il futuro, per il progresso, per le trasformazioni, anche tecnologiche. Dialettica che caratterizza il Giappone contemporaneo e che dunque in qualche modo ci sollecita da molti punti di vista. Senza considerare poi il lungo rapporto di tradizioni che Giappone e Italia hanno da molto tempo: ricordo per esempio che se si visita l'armeria reale a Torino vi si può trovare l'armatura che l'Imperatore Meiji donò al re Vittorio Emanuele II dopo l’Unità d'Italia.

Ci proponi, dunque, cinque volumi, dei quali il primo è un grande classico, un classico dei classici, il “Genji Monogatari”, che è tra l'altro l'opera di una donna, Murasaki Shikibu: può sembrare forse strano, a chi ci ascolta, che una donna nel Giappone medievale fosse autrice raffinatissima di quello che è stato addirittura considerato il primo romanzo psicologico della letteratura giapponese. Ci vuoi quindi raccontare l'importanza di questo volume: come mai lo hai scelto come incipit di questo incontro?

 

Rossella Menegazzo: Innanzitutto grazie mille per la presentazione: sono lieta di essere qui e parlare del Giappone attraverso questa selezione di volumi che hanno segnato non solo i miei studi, ma direi anche il cuore. Questi volumi raccontano la cultura giapponese un po’ a tutti: non si rivolgono a un pubblico selezionato, né sono volumi scientifici per cui serve una conoscenza a priori. Il motivo della scelta è proprio quello di presentare un Giappone nella sua evoluzione estetica, culturale, artistica, e di fornire degli strumenti rappresentando le diverse epoche, autori e forme letterarie che rappresentino il Giappone di oggi,  che come dicevi ci riempie le giornate senza che ce ne rendiamo conto: anche nella nostra vita quotidiana, così occidentale, europea, italiana.

“La storia di Genji”, il primo volume che ho scelto, è di Murasaki Shikibu, figura che ha inaugurato una nuova narrativa giapponese, anzi, direi proprio la narrativa giapponese. Una dama di corte, una donna a servizio di un’imperatrice di epoca Heian (794-1185) intorno al Mille, periodo in cui il Giappone fiorisce da un punto di vista culturale, artistico, architettonico, dopo secoli di assoluto debito culturale nei confronti della Cina. È un momento in cui il Giappone prende in mano la propria cultura e la propone secondo un modello originale e autoctono. Murasaki Shikibu rappresenta questa nuova narrativa, questa letteratura che comincia a essere scritta non in lingua cinese - una lingua che rimarrà ovviamente la lingua ufficiale, la lingua della poesia, della politica, della religione e quindi anche la lingua del mondo maschile - ma con il kana, un sillabario che si sviluppa per la necessità di tradurre la lingua cinese una volta che viene importata in Giappone.

Il kana consisteva in quei segni che venivano messi di fianco ai caratteri cinesi per traslitterare la pronuncia cinese in quella giapponese. Ecco, tali caratteri diventano veri e propri sillabari fonetici, quindi non più ideogrammi e pittogrammi, ma una scrittura più semplice, basata sulla fonetica, con una varietà di termini che implica ovviamente anche la possibilità di giocare con la lingua, dal momento che sono tantissimi gli omofoni relativi a caratteri che invece sono completamente diversi per significato.

Murasaki Shikibu ha questo nome bellissimo: Murasaki significa porpora, il color viola, il colore della nobiltà di corte, tutta quella gamma di colori che erano destinati solo agli abiti dei nobili ed erano vietati al popolo comune; Shikibu in realtà non è un cognome, non è neanche un nome d'arte, ma deriva dal grado rivestito dal padre all'interno del cerimoniale di corte al servizio dell'imperatore. Da questo si evince come queste donne fossero inquadrate in qualche modo nella sfera sociale maschile, e dentro una corte che era fortemente divisa per ranghi. Nello specifico lei non fa parte della nobiltà di alto rango, ma viene scelta e portata a corte da Fujiwara Michinaga, grande letterato e statista che si trovava alla corte dell'imperatrice Shōshi, in qualità di scrittrice e di persona formata nelle arti, dato che già suo nonno e il suo bisnonno erano grandi poeti e contributori delle collezioni poetiche imperiali.

“La storia di Genji”è un romanzo che viene considerato ormai a livello mondiale come il primo romanzo psicologico, anticipando un po’ Proust se vogliamo, con caratteri ovviamente diversi; è un romanzo che mette al centro questo protagonista maschile di nome Hikaru Genji, il “principe splendente” (Hikaru vuol dire brillante, splendente) e tutti i suoi amori. È un libro inestricabile, quasi una soap opera, che si divide in 54 capitoli e che racconta le generazioni di personaggi di corte - maschili e femminili - che ruotano intorno a questa splendida figura di Genji, figura ideale dell'uomo di epoca Heian: egli incarna l’estetica Heian per eccellenza in tutti i campi, dalla bellezza fisica all'eleganza, alla moda; si tratta di un’eleganza nei modi di muoversi, un'eleganza legata all’etichetta, alla capacità di poetare, di comporre versi sempre adeguati all'occasione, alla capacità di danzare, e ovviamente alla capacità di amare. Genji ha dunque uno stuolo di dame, tutte in attesa di questo splendente principe a cui nessuno può dire di no.

Nel romanzo si sviluppano vicende estremamente complicate, che si verificano tra i vari gradi all'interno della corte imperiale, e che risultano anche difficili da memorizzare. Vi è comunque una comunione del vissuto di questa nobiltà, una comunione di valori che parla di bellezza: si tratta di un periodo in cui la cultura giapponese ha vissuto un’estetizzazione totale della vita quotidiana, non a livello delle fasce popolari, quanto piuttosto nell'ambito di corte, nel quale ogni gesto - si capisce dalle pagine di questo romanzo - è un gesto selezionato, un gesto studiato. Non si passa alcun messaggio da persona a persona in maniera diretta, ma lo si porge, attraverso un ventaglio, attraverso una carta di cui si sceglie il colore, la grana, la finitura, ove la calligrafia ovviamente ha un’importanza; bisogna dunque saper presentare i propri pensieri, i propri desideri, le proprie intenzioni d'amore in modo adeguato, per essere accolti in maniera altrettanto adeguata.

 

MV: Insomma, una dimensione estetica, ma anche etica, raffinatissima, che in qualche modo rappresenta questo rapporto pervasivo del Giappone e della cultura di corte giapponese con il mondo delle arti e della letteratura. Un libro anche molto complesso da leggere, e da tradurre: penso a questa traduzione Einaudi di Maria Teresa Orsi, che se non erro è forse la prima traduzione diretta dal giapponese all'italiano, perché c'è da dire che nei confronti del Giappone l’Italia ha una lunga tradizione di rapporti, che tuttavia è passata nel corso dei secoli attraverso una chiave a volte di esotismo, e in un secondo momento di japonisme. Noi oggi stiamo invece recuperando con il Giappone un rapporto che, anche dal punto di vista storiografico e scientifico, è molto più diretto, e che implica anche tanto lavoro di ricerca (si tratta appunto delle cose di cui ti occupi tu). Questa specifica traduzione, in effetti, cambia anche il modo in cui leggiamo questo volume.

 

RM: Cambia assolutamente il modo di leggere questo volume. Chi è cresciuto quando ancora questo volume non c'era, conosce perfettamente la differenza tra le varie traduzioni. È un testo che ha messo a dura prova la nostra grande Maria Teresa Orsi, che vi ha lavorato per oltre dieci anni; si tratta un lavoro di traduzione importante, e credo sia una tra le opere che pone la base proprio degli studi giapponesi, che siano letterari, storici o artistici, proprio perché dà anche uno spessore alla terminologia, necessaria ovviamente per affrontare questo tipo di studi. Questo romanzo è pieno di riferimenti religiosi, filosofici, e non solo al buddhismo; è un romanzo pieno di riferimenti ai ranghi sociali in cui si divideva la corte, si occupa di fatti a cui nessun uomo avrebbe creduto - come dice Murasaki stessa nelle prime pagine - ma che in realtà includono anche episodi realmente accaduti. È altresì un romanzo pieno di colori, di descrizioni, di tessuti, di vesti, di broccati, di sete, e questo è uno degli aspetti più difficili da affrontare quando si approccia qualsiasi tipo di testo o di opera d'arte giapponese, ove la natura fa da sfondo al sentimento umano.

 

MV: Ed evoca non solo il senso della vista, ma anche tutti gli altri sensi, che nella cultura giapponese, come ci ricorderà un altro autore di questa nostra carrellata, sono assolutamente fondamentali. Se sei d'accordo io passerei adesso al secondo volume. Il secondo volume di cui parliamo è, come ci dicevi prima, un tuo libro de chevet, e si vede anche da come lo hai letto e ‘vestito’. Si tratta di “Ore d’ozio” di Kenkō Hōshi. Un volume che appartiene alla letteratura classica giapponese, un libro scritto nel Trecento, un'opera di nuovo straordinaria, una raccolta di prose, aforismi, brani che riflettono sulla natura umana, sul rapporto col potere, sull'amore, secondo una forma narrativa - anche se ovviamente molto lontana dalle sue specificità - che a noi occidentali ricorda un po’ quella tradizione letteraria che va da Seneca a Machiavelli, o da Montaigne a Leopardi, quella dell’intellettuale che riflette, però ovviamente con un'attenzione tutta giapponese (la dialettica con la natura, i temi etici e via dicendo). Ci vuoi dunque introdurre alla scelta di questo volume?

 

RM: È un volume da tenere sempre sul comodino; non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta 243 piccoli capitoli, che sono in realtà considerazioni sulla vita, sulle cose di tutti i giorni, sugli atteggiamenti da tenere o da non tenere; si tratta di giudizi anche molto forti, a volte persino contraddittori, di questo personaggio che viene chiamato Kenkō Hōshi. Come nel caso precedente, Kenkō è un nome d'arte, appellativo di una lettura giapponese dei kanji che compongono il suo nome, mentre Hōshi in realtà significa “maestro della legge”, un titolo che solitamente segue il nome e che in genere viene assegnato a monaci che si sono affermati in modo particolare nell'ambito delle arti, delle lettere, e su diversi ambiti.

 

Kenkō Hōshi è figura di spicco dell'epoca Kamakura (1185-1333), che segue l'epoca Heian in cui scrive Murasaki Shikibu. Si tratta di un momento storico in cui cambia completamente il valore dell’estetica, poiché subentra al potere una classe politica samuraica, a seguito della guerra tra i clan che hanno messo fine all'epoca Heian, all'epoca imperiale di Kyoto, e trasferito la capitale a Kamakura, quindi in una zona completamente diversa (a nord-est vicino all’attuale Tokyo). Ecco, Kenkō Hōshi a un certo punto si ritira dalla vita sociale, dalla vita politica e dagli impegni mondani, e cerca rifugio tra le montagne fuori Kyoto, in un tempio da cui successivamente prende anche un altro nome, Yoshida, e cerca di allontanarsi da tutti, addirittura lamentandosi del fatto che la sua famiglia lo cercasse e che tutti andassero ad intrattenersi con chiacchiere mondane assolutamente di disturbo alla sua pace. Egli rappresenta un po’ questa letteratura da eremiti, da monaci, certo da non intendere nel senso occidentale, ma di persone che prendono i voti per abbandonare gli impegni sociali e politici.

 

MV: Che era anche un topos della cultura cinese, no?

 

RM: Assolutamente, certo, sempre con in mente questo modello cinese del poeta-letterato-artista che si ritira tra le montagne, in riva ad un lago, a scrivere, poetare, bere sake e tè, in pace rispetto ai tanti obblighi in cui le classi samuraiche erano in qualche modo impigliate. Questo volume è una raccolta di pensieri assolutamente personali, privi di sequenza, privi di logica, in cui si considerano le cose di valore o non di valore della vita, toccando temi che vanno dall'amore alla bellezza femminile - quasi disdicevoli, penseremmo noi, per una persona che ha preso i voti - apprezzando il biancore di una pelle femminile, parlando di gioco d'azzardo, discorrendo di come un uomo a modo debba sapersi fermare nel bere il sake e quindi non esagerare. Il volume arriva poi a toccare i temi che vanno dalla religione alla vita concreta, dando un'idea anche di quelli che erano i valori estetici di quest'epoca molto diversa rispetto alla precedente, valori basati su una maggiore austerità, su una tendenza estetica che porta al centro la semplicità e la povertà dei materiali.

E’ l'epoca in cui in Giappone entra il buddhismo zen, una visione di grande influenza, che porta nei secoli successivi anche alla nascita di quei valori fondanti intorno alla cerimonia del tè. Si tratta quindi di una ricerca di maggior austerità, di una tendenza al distacco dalle cose mondane, che da una parte guardano al processo e al percorso di meditazione legato al buddhismo zen e dall'altra però anche all'etica samuraica, legata ad una vita sempre in bilico tra vita e morte. Sono anni, in cui Kenkō vive direttamente i grandi conflitti interni al Giappone: la guerra e anche i momenti di carestia colpiscono duramente, e ci troviamo di fronte a un tipo di letteratura di eremitaggio che rappresenta un po’ una reazione ai tempi che corrono.

 

MV: Certamente, dicevi di questo rapporto con la Cina e il Taoismo, che poi viene però ripensato completamente e diventa qualcosa di molto diverso; si tratta dunque di un'altra lettura assolutamente consigliata e godibile, oltre che molto affascinante. Ecco, forse adesso puoi leggerci qualche brano tra quelli che hai appuntato.

 

RM: Sì, ce n'è uno bellissimo che riguarda il tema dell'amore, che come dicevo è una delle trattazioni che non ci si aspetterebbe da un monaco, e recita: “Anche se eccelle in mille cose, colui che non è incline all'amore è un essere imperfetto, simile a una tazza preziosa cui manchi il fondo. Errare senza meta, con le vesti intrise di rugiada o di brina, coi pensieri in tumultuosa incertezza e il cuore senza pace per le rampogne paterne o per il biasimo della gente, e in questo stato coricarsi, spesso senza riuscire a prender sonno per notti e notti, ebbene, proprio questo ha un suo fascino. È tuttavia preferibile essere ritenuto dalle donne conquista non facile e non essere mai seriamente infatuato di loro”.

Vi sono poi altri passi che in qualche modo parlano dell'aspetto dell’evanescenza della vita. Ce n'è uno che fa riferimento proprio al pensiero buddhista più profondo, con un esempio lampante e che potremmo usare tutti i giorni. Lo cito: “Quando considero le cose per cui le creature umane si affannano, mi sembra come se avendo costruito un Buddha di neve esse fabbricassero ornamenti d'oro e d'argento e gioielli, e costruissero un tempio o una pagoda per lui. Potrebbe mai il Buddha di neve attendere la fine della costruzione? Spesso all'uomo sembra che la vita duri eterna, e invece e svanisce come neve, e lascia molte cose incompiute”. È bellissimo, bellissimo e commovente, vi sono questi esempi che spaziano fino a toccare ciò che è di valore nella vita di tutti i giorni. L’intero aspetto del design contemporaneo, dell'architettura che noi apprezziamo oggi rispetto al Giappone nasce proprio da questi caratteri di irregolarità, di apprezzamento dei materiali grezzi, da una non omogeneità dei colori (colori pacati, dall’aspetto sobrio). Anche Kenkō Hoōshi dice che solo l'uomo che non capisce apprezzerebbe un'infilata di libri sulle mensole, tutti della stessa dimensione e ordinati; invece, è sempre quel tocco di irregolarità e mancanza di finitezza - che viene sempre lasciata nella costruzione del palazzo imperiale - a rappresentare il valore della bellezza.

 

MV: Benissimo, direi che possiamo continuare questa nostra indagine sulla cultura giapponese spostandoci cronologicamente: lasciamo la letteratura classica e affrontiamo dei volumi che sono più vicini a noi. Il terzo volume si pone tra Ottocento e Novecento e ci porta ad affrontare un tema che so che ti è molto caro, ossia quello del rapporto tra Giappone e Occidente, poiché è un libro di un autore straordinario che riflette sull'ombra sino a farne un vero e proprio elogio: il “Libro d'ombra”. Che cosa si intende con questo volume, qual è l'obiettivo che l'autore si pone?

 

RM: Innanzitutto Tanizaki Jun’ichirō è uno dei grandi nomi della letteratura del Novecento giapponese, con Kawabata e con Mishima - oggi qualcuno aggiunge anche Murakami, ma direi che lo stile è assolutamente diverso - ed è uno di quegli autori che in qualche modo hanno segnato quest'epoca di forte occidentalizzazione del Giappone, che comincia appunto a fine Ottocento e segna poi tutti i primi decenni del Novecento con questa doppia anima giapponese: l’una che guarda all'Occidente, che vuole imitarne tutti gli aspetti, e l'altra che invece, recalcitrante, cerca di salvare quanto più possibile della propria tradizione, anche promuovendo la cultura classica. Tanizaki tra l'altro nella sua carriera ha anche tradotto opere classiche come “La storia di Genji”, e scrive il suo “Elogio dell'ombra” nel 1930. “Libro d’ombra” è infatti la traduzione in italiano, ma il titolo originale è proprio "In’ei raisan”, che ha peraltro una sonorità bellissima.

 

MV: Che forse non è stato utilizzato perché c'era una raccolta di poesie di Borges che aveva lo stesso titolo, quindi c'era un problema editoriale.

 

RM: Esatto, c’era un problema di traduzione sull'italiano. Questo tema, in’ei, che significa proprio luce e ombra, implicando la penombra e quindi la ‘non luce’, è uno dei punti chiave di lettura di tutta l'estetica giapponese, uno di quei temi che vengono suggeriti anche agli studenti che si avvicinano all'arte giapponese, perché qualsiasi produzione pittorica su supporti classici - che sia il paravento, che sia un rotolo da appendere alla parete o una porta scorrevole dipinta - implica una lettura che non è quella dello spazio abitativo occidentale: una stanza di dimensioni ampie, dove le porte scorrevoli chiudono o aprono uno spazio al privato o al pubblico, dove abbiamo i tatami per terra, e quindi la vita si svolge più in basso.

 

MV: Un luogo privato informale ma anche molto formalizzato, perché ad esempio il rapporto - che tra l'altro lui discute - del tokonoma (“nicchia a parete” chiave nella gestione dello spazio tradizionale), in qualche modo è correlato con la presenza dell'ospite. Questi sono temi che lui affronta in modo molto raffinato, in relazione ai cambiamenti che sono indotti dalla modernità. Quindi l'ombra è anche quella che viene scacciata dalla luce elettrica, no?

 

RM: Assolutamente, l'esempio più lampante che porta è quello dell'analisi dei gabinetti e delle piastrelle bianche dei bagni, quel bianco occidentale per cui egli dice ‘è chiaro che l'Occidente non ha la sensibilità che abbiamo noi rispetto alla luce’: non è paragonabile un ambiente fatto di colori naturali legati al legno, ad un bianco che è pur sempre un bianco opaco, non è mai quel bianco assoluto che non dà modo di rilassarsi e di entrare in uno stato di intimità. Quello che lui porta come esempio sono tutti modi dell'estetica giapponese che partono dall'analisi di un luogo, come può essere la casa tradizionale, e dei materiali con cui essa viene costruita - di solito con colori terrosi, le pareti sono sabbiose e argillose -, o ancora si va a toccare lo spazio per la cerimonia del tè, ambienti che vengono resi oscuri proprio per dare questa sensazione di ovattato che implica anche uno stato d'animo per chi si appresta a partecipare ad una cerimonia del tè, o per chi viene accolto in un'abitazione.

Il tokonoma cui facevi riferimento è questa nicchia classica, tipica della stanza principale della casa giapponese, dove si pone un rotolo illustrato, una calligrafia, un fiore, una composizione di ikebana che donano atmosfera all'intera casa, una serie di ornamenti da adattare di volta in volta a seconda dell’ospite, della stagione, dell'occasione, della festività: c'è quindi una temporaneità nella fruizione dell'opera d'arte e dell'ambiente stesso, ogni volta trasformabile a seconda delle esigenze. Questo è un aspetto che non ci appartiene, una cultura della pietra, di pareti spesse e di finestre che tagliano l'esterno dall'interno, si tratta di una conformazione completamente diversa dalla nostra concezione.

 

MV: Però poi l'architettura giapponese per esempio si riprenderà la sua rivincita, poiché da Morse a Bruno Taut a Frank Lloyd Wright invece sarà di grande ispirazione proprio la casa giapponese, e anche per esempio aspetti sottili che forse non sempre vengono colti, come la modularità della casa fondata sul tatami, che quindi diventa la misura attraverso la quale si imposta uno spazio, non solo bidimensionale ma anche tridimensionale, e che avvicinerà moltissimo i grandi architetti del primo Novecento (Wright in primis, che era un frequentatore del Giappone).

 

RM: Sì, queste figure apprendono moltissimo dalla villa imperiale di Katsura, che si trova a Kyoto e che è in qualche modo l'esempio lampante di tutta questa estetica di cui Tanizaki parla: è un ambiente architettonico dove la luce viene fatta filtrare in maniera orizzontale attraverso almeno due o tre passaggi di shōji, di porte-finestre di carta, ovviamente, non di vetro, ‘il vetro non è consono’ dice Tanizaki, in quanto troppo trasparente, lascia vedere troppo. C'è una veranda esterna, un corridoio interno, e soltanto dopo la luce arriva alle stanze più interne.

Oltre a questo aspetto della luce, che fa fruire quindi anche le opere d'arte esposte all'interno con un approccio ovattato - dove ovviamente l'oro in foglia brilla d'una luce che non è quella data dalla lampada elettrica né dalla luce diretta che abbiamo in un'abitazione occidentale -, ecco, accanto a questo vengono apprezzati anche gli oggetti segnati dalla patina, la patina dell'uso, del tempo, quindi non l'argento lucidato e fatto brillare all’occidentale, ma piuttosto la tazza di lacca su cui rimane un po’ l'uso delle mani, la tazza di ceramica anche un po’ sbeccata.

Si tratta di colori e tonalità che vanno a costituire quest’ombra che è considerata la chiave di lettura per tutte le differenze in ambito estetico, artistico, architettonico, tra Occidente e Giappone. Tanizaki in sostanza mette lì due o tre esempi anche riguardanti l'estetica del corpo, parla del colorito della pelle, di come il colorito della pelle occidentale, europeo e giapponese si adattino in maniera diversa a seconda del biancore a determinati colori di vesti. Quegli anni di inizio Novecento rappresentano in sostanza un momento di reazione a un'invasione della cultura occidentale in Giappone.

 

MV: Sarà qualcosa che dalla fine dell'Ottocento affascinerà la sensibilità di tutti coloro che in qualche modo sono japonistes, che studiano quest'idea di opera d'arte totale che va dal vestito al design, agli oggetti della casa, e che vedranno in questo un orizzonte interessantissimo. A questo si riconnette anche tutto il tema dell'arte industriale o delle industrie artistiche delle arti decorative, argomento di cui tu ti sei molto occupata proprio perché c'è questa interazione. Infatti sarà proprio Bruno Taut, che citavamo prima, a scrivere una monografia bellissima su Katsura. Ecco perché degli architetti, e degli studenti di architettura in particolar modo, devono leggere questo volume.

 

RM: L'ultimo omaggio che è stato fatto a questo libro è proprio un oggetto di design, nato qualche anno fa dal progetto di Issey Miyake - uno dei giganti del design e della moda giapponese odierni - con Artemide: una lampada di carta origami che si apre e diventa tridimensionale che si chiama proprio “In-ei”, in omaggio al “Libro dell’ombra”.

 

MV: Grazie, direi che allora a questo punto possiamo forse ancora esplorare questi stessi anni, perché sostanzialmente vi rimaniamo col prossimo volume di cui dobbiamo parlare. Ci troviamo di nuovo con questa dialettica raffinata, anche complessa, tra Giappone e Occidente, perché il personaggio di cui parliamo è Kuki Shūzō, e il libro è "La struttura dell’iki”. Lui è un personaggio che frequenta l'Europa, frequenta in particolar modo la Francia, conosce alcuni dei grandi filosofi francesi di quegli anni - Bergson, Sartre - ed è ricordato anche da Heidegger come una persona di grande qualità, con cui lui entra in dialogo. Che cos'è dunque questo iki? Ci aiuti a entrare dentro questo libro che è in realtà abbastanza impervio?

 

RM: Questo volume è il più complicato tra i cinque libri, ma di nuovo, come “Libro d'ombra”, secondo me rappresenta la base per comprendere anche il Giappone di oggi. È stato scritto sempre negli anni Trenta, quindi grosso modo negli stessi anni di “Libro d'ombra” di Tanizaki. Si tratta quindi di volumi coevi, anche gli autori sono praticamente coetanei tra l'altro, soltanto che "La struttura dell’iki” parla di un'estetica che trova fondamento nell'epoca Edo. Questo concetto di iki, che è trascrivibile con un carattere cinese tradotto successivamente con la pronuncia di ‘iki’, indica un qualcosa ‘alla moda’, l'aspetto dell'essere alla moda, una moda che tocca però non solo l'individuo, ma tutti quelli che sono i caratteri considerabili alla moda. Si tratta dunque di un saggio molto complesso, perché si divide in capitoli molto ricchi di contenuto anche da un punto di vista filosofico (d'altra parte la sua formazione è fortemente europea: ha studiato a Heidelberg e a Friburgo, ha avuto scambi notevoli e continui con Heidegger che avrebbe voluto addirittura occuparsi dell'introduzione del volume, anche se poi però non lo ha fatto).

Ecco, Kuki Shūzō è una di quelle figure che hanno frequentato quel movimento giapponese non anti-occidentale, ma interessato a porre qualche paletto all'introduzione dei valori occidentali a livello educativo nelle prime scuole d'arte del Giappone - che poi sono diventate le università d'arte attuali di Tokyo e Kyoto. Dunque, egli frequenta Okakura Kakuzō, che insieme a Fenollosa ha portato avanti il movimento di riscoperta e promozione delle arti tradizionali, in un momento in cui (erano gli ultimi anni dell'Ottocento) questi istituti d'arte venivano spinti ad adottare sistemi educativi europei, tant'è vero che i nostri italiani furono invitati dal governo Meiji a questo scopo.

 

MV: Certo, come per esempio Chiossone, che poi ha lasciato il meraviglioso Museo d’Arte Orientale di Genova, oppure Fontanesi con il suo gruppo di pittori.

 

RM: Esattamente, anche Ragusa in quegli stessi anni era in Giappone. Dunque, questo gruppo di figure di rilievo - Okakura Kakuzō, Fenollosa, e poi anche Kuki Shūzōche si inserisce in questo filone - cerca di rivitalizzare la tradizione giapponese, tutti gli aspetti della pittura, dell'arte, non rinnegando l'Occidente, ma prendendo poche cose indispensabili con le pinze, senza rinnegare tutto ciò che è stato. L'epoca Meiji ha in effetti un po’ questo aspetto di negazione del passato, il che crea un forte conflitto in tutti gli ambiti della creatività, ma anche della vita sociale, e tocca e divide l'opinione pubblica e gli stessi movimenti culturali.

 

MV: Forse vale la pena di ricordare che l’epoca Meiji è quella in cui il Giappone si apre alla modernizzazione, all'Occidente, anche con missioni europee e in Italia, o con la presenza delle grandi esposizioni internazionali come quella di Vienna. Si tratta inoltre della scoperta del Giappone da parte dell'Occidente, di un momento storico che genera tensioni e ambiguità.

 

RM: Certamente, a partire dal 1868 abbiamo infatti una Restaurazione che pone fine a oltre 250 anni di governo samuraico per adottare una costituzione monarchica di stampo occidentale: un passo che è veramente rivoluzionario, e che in qualche modo ha creato quel substrato occidentale che noi leggiamo del Giappone, che lo differenzia magari da altri paesi asiatici e che però ci nasconde la sua reale anima, che continua a permanere sempre nascosta e si apre solo a chi entra un po’ in profondità, con coraggio, nel Giappone più intimo.

Kuki Shūzō cresce in un ambito di letterati, di persone coltissime per quel momento, e scrive questo volume dal carattere fortemente filosofico ed estetico, molto complesso, parlando di questo concetto di iki su cui fondamentalmente si basa la tensione della bellezza. Tale bellezza si basa sulla seduzione e sulla rinuncia, ed è un concetto appunto dell'epoca Edo, dell'epoca samuraica, che emerge perché ripetutamente, durante questi secoli governati dallo shogunato (che corrisponde a una dittatura militare), tanti sono i regolamenti, gli editti emanati per controllare, limitare le classi che si stavano arricchendo, che erano le classi dei chōnin, dei borghesi, dei cittadini e dei mercanti che ostentavano la propria ricchezza intaccando il potere samuraico.

 

MV: Certo, ed effettivamente tu citavi la fine dell'epoca Tokugawa, con la battaglia di Ueno e tutti quei momenti storici che portano effettivamente l'Imperatore - e non più lo shōgun - a prendere le leve di questa modernizzazione, una modernizzazione che ha anche un valore politico e di alterità rispetto al mondo precedente, comportando una damnatio memoriae di quello che viene prima nel tempo.

 

RM: Esatto, a mio avviso questo volume in qualche modo mostra la continuità di quei tempi, dato che, se è vero che abbiamo quest'epoca di rivoluzione culturale che tocca tutti gli aspetti della vita - la chiamiamo modernizzazione ma è una vera e propria occidentalizzazione - è anche vero che essa porta con sé alcuni aspetti di continuità, continuità che forse sta proprio nell’apprezzamento di alcuni toni sommessi di bellezza che trovano fondamento in epoca Edo.

Questo iki,che noi diamo un po’ per scontato pensando sia un concetto che ha attraversato tutta la produzione e l'estetica giapponesi, in realtà è figlio dell'epoca samuraica ed è legato proprio non ad una ostentazione della bellezza e della ricchezza, ma alla capacità di portamento, di scelta di colori pacati, sommessi. Sono iki i colori grigi, sono iki tutte le tonalità del marrone tè, sono iki i toni del verde, quindi tutti quei colori che appartengono al mondo dell'ombra, della cerimonia del tè. È un iki che, appunto, valorizza questi aspetti, anziché valorizzare le sete rosse e i broccati, perché alla classe economicamente emergente erano vietati questi lussi: non potevano e non dovevano competere con la classe samuraica. Le sete rosse e i colori sgargianti vengono quindi usati per le fodere dei kimono, delle giacche, e si tende a mostrare questa parte un po’ esagerata del proprio lusso solo alle persone con cui si possono condividere queste cose, mentre esternamente si tende a utilizzare un colore sommesso; vengono preferite ai motivi decorativi le righe lunghe e sottili, e quindi le piccole geometrie, con colori che non devono essere appariscenti. Tutto questo è considerato come iki, così come iki è la tensione dell'amore (e la rinuncia al suo compimento).

 

MV: E di nuovo torniamo a una dimensione anche estetica e sentimentale, che però troviamo anche per esempio nel design industriale giapponese; in fondo le due dimensioni, quella pop che si svilupperà successivamente e quest’altra di raffinatissimo understatement, trovano qui alcune delle loro radici. Grazie. Io direi che forse possiamo chiudere in bellezza con l'ultimo libro, che invece si distacca da quelli che abbiamo visto sinora perché è un libro italiano.

È il volume di un grande orientalista, fotografo, alpinista, poeta italiano. Stiamo ovviamente parlando di Fosco Maraini: “Ore Giapponesi”, libro fantastico, che invece affronta di petto il modo in cui noi italiani, nello specifico, guardiamo al Giappone. Dunque un libro di riflessioni raffinate, molto erudite, ma in realtà anche un libro di reportage, un diario personale, perché Maraini qui racconta il suo rapporto con il Giappone prima e dopo la guerra, attraverso delle esperienze che sono state anche molto dolorose, come quella dell'internamento.

Un volume veramente ricchissimo di contenuti, che tu ci hai portato tra l'altro nella sua edizione originale, quella del 1957 stampata a Bari, che è molto interessante anche come oggetto editoriale, perché corredato dalle fotografie dello stesso Maraini, che opera un po’ come un reporter moderno, che indaga, analizza con svariati mezzi, e non soltanto con la penna e con la riflessione scritta, il Giappone contemporaneo. Maraini coglie con grande intelligenza e sensibilità il Giappone in divenire, il cambiamento: il primo capitolo se non sbaglio è “Le tre Tokyo”, un secolo di città che cambia in modo molto radicale.

La trasformazione del Giappone sta avvenendo proprio in quegli anni. Tutta la trasformazione infrastrutturale, per esempio di Tokyo, che oggi conta oltre 30 milioni di abitanti - più che una città è un'espressione geografica - ha proprio origine in questi anni postbellici. I primi sono quelli ovviamente in cui c'è ancora l'amministrazione americana, e poi via via si procede all'affermazione dell'autonomia del Giappone come Stato contemporaneo. Un libro quindi ricchissimo, che ci dona mille spunti. C'è qualche aspetto dal quale ti fa piacere partire?

 

RM: Sì, questo è un libro che segna un po’ tutti noi orientalisti. Fosco Maraini è il nostro maestro, lo consideriamo così tutti, indipendentemente dalla disciplina. È a lui che dobbiamo la nostra Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi, ed è a lui che dobbiamo questo racconto del Giappone che credo nessun altro, nella letteratura italiana, sia riuscito a riportare, perché ha una scrittura felice: è una prosa poetica quella di Fosco, ricca di eventi e di sentimenti personali, tanto quanto di aspetti - come dicevi bene - fotogiornalistici.

Maraini racconta, attraverso aneddoti ed esperienze proprie, un Giappone in divenire dal punto di vista culturale, dal punto di vista religioso; parla di scultura, parla di templi, parla appunto delle città e del grande cambiamento che stanno subendo, anche Kyoto, capitale culturale del Giappone, descritta in un momento in cui è assolutamente distrutta e la ricostruzione avviene ignorando il bello degli edifici classici in legno (abbiamo invece questi scatoloni di palazzi cui Fosco Maraini dedica qualche parola di critica).

Egli entra nella vita giapponese come qualsiasi straniero può fare quando si reca in Giappone. Lo ritengo quindi un libro che accompagna al Giappone ancor prima di recarvisi, un libro che forse dovrebbe anticipare la lettura di tutti quelli che abbiamo presentato oggi. La scrittura di Fosco Maraini lo presenta in maniera unica, le sue fotografie, poi, raccontano non solo il Giappone, ma un po’ tutta l'Asia, perché sappiamo che in quanto scalatore e antropologo ha girato il Tibet, l'India, l’Asia Centrale. È andato infatti in spedizione con Tucci - che è stato anche il suo il suo maestro - in Tibet, dedicando poi gran parte della sua vita proprio al Giappone, e descrivendolo sempre al paragone con la propria esperienza italiana. Quando parla di Kyoto dice ‘non si può fare a meno di paragonarla alla nostra Firenze’, perché per tanti aspetti queste due grandi città si somigliano.

La sua capacità è anche quella di far sentire gli odori, di far sentire i suoni, di farti entrare in quelle situazioni che chi è stato in Giappone sa che sono proprio come le racconta. Questo è uno dei volumi sul Giappone, forse il più importante, perché racconta - come dicevi bene - anche gli anni della prigionia. Fosco è andato in Giappone giusto prima dello scoppio della guerra, e mentre era in Giappone si è rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, con dei gesti anche molto importanti, che riprendevano le note azioni di spirito nobile e di orgoglio samuraico.

 

MV: Esatto, mi è capitato di sentire un'intervista alla figlia cui si chiedeva perché il padre non avesse fatto una sorta di formale accettazione, mettendo l’intera famiglia in difficoltà. La famiglia ricorda ancora questa etica fortissima da lui dimostrata in quel momento.

 

RM: Ricordiamoci anche che in quegli anni Fosco risiedeva in un Paese che era alleato dell'Italia e della Germania, quindi il clima era davvero complesso, tant’è vero che tutta la famiglia venne internata per due anni nel campo di concentramento di Nagoya. Tuttavia, il suo orgoglio in qualche modo fece capire alla parte giapponese quanto fosse intoccabile la sua etica: questo, in Giappone, ha un valore, per cui in attesa del rilascio Maraini e famiglia riusciranno ad avere un trattamento non di favore ma un po’ più morbido.

C'è un altro volume altrettanto interessante, che racconta un’altra parte della sua biografia, che è “Case, amori, universi” - pubblicato però posteriormente tra le sue ultime pubblicazioni - e che riporta, come in tutti i suoi libri, l'aspetto fotografico. Proprio l’approccio fotografico è un aspetto particolarmente rilevante, se si pensa che è una fotografia a portare in Italia la conoscenza del popolo Ainu, questo popolo del nord del Giappone che è una minoranza. Maraini riporta anche tutte le fotografie delle famose pescatrici di perle, le ama,cui dedica un servizio intero, ed è un servizio fotografico che poi ha girato tutto il mondo, anche come mostra.

Se posso, ci sono delle piccole parti di questo libro che sono poesia che vorrei leggere, e che vanno un po’ incontro ai suoi altri volumi come “Gnosi delle fanfole” o “Il nuvolario”, libri con questo spirito sempre un po’ fanciullesco.

 

MV: Tant’è vero che amava Gassman e altri grandi attori del cinema italiano che l'hanno interpretato.

 

RM: Esattamente.

“Certi suoni della vita giapponese non si scordano mai. Svegliarsi, per esempio, nel fondo della notte, in quelle ore quando il mondo è sospeso fra nulla e nulla, quando anche l'alba sembra una leggenda, e sentire, attraverso le pareti sottili di legno di carta, che separano ma non isolano dalle stradine, qualcuno che passa coi geta, i sandali di legno: ‘kara koro kara koro kara koro’. E il suono è musicale, un canto che si annuncia da lontanissimo, le casette sono tante casse armoniche, la strada uno strumento, poi si avvicina, si avvicina, passa sotto la finestra, infine lentamente sparisce. Si capisce subito se è un uomo o una donna: se ne avverte immancabilmente il carattere. Il passo a moina della gatta felice, il passo trasandato della disillusa, il passo superbo della bella, il passo incerto di colei che soffre. Così la notte torna a stendersi sulla città”.

 

MV: Un passo raffinatissimo. Questo è dunque un altro libro assolutamente da leggere, e come tutti gli altri libri oggi presentati è nelle nostre biblioteche: chi viene nel nostro ateneo può certamente accedere alle nostre biblioteche e trovare questi volumi in catalogo, che vi consigliamo di leggere. Rossella, io direi che abbiamo fatto una bellissima carrellata di volumi straordinariamente importanti e interessanti per cogliere questa dialettica complicatissima che caratterizza il Giappone, tra tradizione, riflessione sulla propria identità, innovazione e tecnologia.

 

RM: Un mandala.

 

MV: Esatto, e anche in qualche modo qualcosa che ci ricorda i ragionamenti che stiamo facendo anche nel nostro ateneo, rispetto a una cultura veramente politecnica, che consideri l'innovazione tecnologica e la dimensione umanistica insieme, una cultura che in qualche modo il Giappone ha costruito con un percorso estremamente raffinato che arriva sino a oggi. Ti ringraziamo quindi moltissimo della tua presenza, e certamente io credo che chi ti avrà ascoltata vorrà approfondire e avvicinarsi a questi volumi, quindi grazie.

 

RM: Grazie, grazie a voi.