Che cos’è la tecnica? | Vittorio Marchis

Chi è Vittorio Marchis

Vittorio Marchis

Vittorio Marchis, laureatosi al Politecnico di Torino nel 1975, dopo avere svolto per oltre un decennio attività di ingegnere e docente nel settore aerospaziale, ordinario di Meccanica teorica e applica dai primi anni del duemila ha trasferito la sua titolarità alla Storia della scienza e della tecnologia, sempre nel suo Ateneo.

Membro di comitati scientifici di importanti istituzioni nazionali e internazionali, da oltre vent’anni si occupa di storia sociale e antropologia delle tecniche. Ultimamente ha affrontato i temi della filosofia della tecnica, intorno ai quali ha recentemente pubblicato Dall’Arte… allo Zero, piccolo dizionario filosofico dell’ingegneria (Mondadori 2020). Autore di centinaia di saggi scientifici e decine di volumi, collabora, come autore e conduttore, a programmi televisivi e radiofonici delle emittenti nazionali.

È noto per le sue Autopsie di macchine, lezioni spettacolo che ormai da più di vent’anni cercano di coniugare tecnologia e scienze umane, legando la scienza alle arti, la letteratura alla filosofia.

"Piccola cosmogonia portatile"

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Raymond Queneau, Piccola cosmogonia portatile

"La condizione operaia"

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Simone Weil, La condizione operaia

"L’evoluzione della tecnologia"

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George Basalla, L’evoluzione della tecnologia

"Dio & Golem s.p.a."

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Norbert Wiener, Dio & Golem s.p.a.

Norbert Wiener - Bollati Boringhieri

LIBRO IN FASE DI ACQUISIZIONE

"Homo faber"

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Max Frisch, Homo faber

Hamid Ziarati: Benvenute a tutte e tutti. Ci troviamo qui a fare una riflessione sulla cultura politecnica per rispondere a una domanda ben specifica che è “che cos'è la tecnica” con il Professor Vittorio Marchis: classe 1950, torinese, laureato in ingegneria nel 1975, immediatamente dopo si è occupato di ricerche aerospaziali, prima come assistente e successivamente come professore associato, sempre al Politecnico di Torino; dal 1986 al 1992 è stato membro del Comitato di Consulenza del CNR per le Scienze e l’Ingegneria e nel 1990 diventa professore ordinario di meccanica teorica e applicata; quasi un decennio dopo chiede al Ministero dell'Università di trasferire la sua cattedra alla disciplina di Storia della Scienza e della Tecnologia, e tuttora insegna al Politecnico, proponendo di volta in volta dei corsi nuovi - storia della tecnologia, storia della cultura materiale, storia dell'industria in Italia, storia delle cose e filosofia dell'ingegneria. Ha partecipato a tantissimi programmi, è stato autore di programmi radiofonici e televisivi per la Rai, ha raggiunto il vasto pubblico - sia nazionale che internazionale - con le cosiddette “autopsie di macchine”, e ogni volta è stata una lezione-spettacolo dove ha illustrato la tecnologia, o meglio narrato a trecentosessanta gradi, oltrepassando i confini della scienza e trovando connessioni con la letteratura e l'arte, la musica e la filosofia. Attualmente è membro del Comitato Integrità ed Etica della Ricerca del CNR. Oltre all'insegnamento, è autore, co-autore e curatore di innumerevoli saggi, libri, articoli (tra cui il suo ultimo libro, di cui ci parlerà alla fine della sua lezione, che si intitola Dall'Arte...allo Zero. Piccolo dizionario filosofico dell'ingegneria).

Per presentare i cinque libri che il Professor Marchis ha scelto vorrei fare un passo indietro, ritornando al 2006, perché già nel 2006, per cinque puntate del programma Damasco di Radio Rai3, il Professore ha presentato cinque romanzi che l'hanno formato; questi cinque libri che lui ha esposto in queste cinque puntate sono Verso la Cuna del Mondo di Guido Gozzano, Bàrnabo delle Montagne di Dino Buzzati, Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse, Il Ponte di San Luis Rey di Wilder (che è stato vincitore del premio Pulitzer nel 1928) e Lagrange di Filippo Burzio. Oggi ci presenterà altri cinque libri che per lui sono fondamentali per rispondere a questa specifica domanda: che cos'è la tecnica? La cosa che mi ha meravigliato quando ho letto i titoli è che si tratta di cinque titoli scritti da autori che sono multidisciplinari. Gli autori sono: Raymond Queneau, uno degli autori di riferimento per qualsiasi corso di scrittura creativa, poeta e matematico, carissimo amico di Calvino; Simone Weil, una filosofa operaia (entrambi gli autori hanno avuto delle vite incredibili); George Basalla, storico che si occupa dell'evoluzione della tecnologia; Norbert Wiener, un grande fisico, il padre della cibernetica, che si è occupato anche del dilemma teologico; e per ultimo Max Frisch, che è un architetto che ha lasciato il mondo dell'architettura per dedicarsi alla scrittura. In sostanza passeremo da un libro di poesia a degli appunti di filosofia, a un saggio storico, per arrivare a un saggio sulla fisica e la teologia, e per finire con un romanzo che parla della vita di un ingegnere. Sono davvero curioso di sapere e di conoscere il parere del Professor Marchis - che ho avuto modo di conoscere nei corridoi del Dipartimento di Meccanica durante gli anni in cui ho fatto il dottorato di ricerca per sapere come fa a rispondere alla domanda che cos'è la tecnica attraverso questi cinque libri così differenti tra loro.

 

Vittorio Marchis: Forse sarebbe bene fare una ‘premessa alla premessa’. I cinque libri che io avevo a suo tempo scelto per la trasmissione Damasco della Rai, nel 2006, dovevano raccontare la mia avventura nel mondo della ricerca, e già allora avevo scelto la dimensione narrativa perché ero profondamente convinto - e lo sono ancora di più oggi - del fatto che la narrazione sia la chiave di volta, il grimaldello per capire anche quello che non appartiene alla propria specialità, alla propria esperienza diretta. Per trasferire le conoscenze bisogna saperle raccontare, tutto il resto sono argomentazioni, dimostrazioni che vanno bene per chi lavora, per chi si dedica a una singola esperienza. La scelta che ho fatto di questi nuovi libri ha messo nuovamente al centro la narrazione, ma ha voluto declinare il tema della tecnica più specificamente: è chiaro che i primi cinque libri - su cui adesso non mi soffermo - avevano altri significati (sarebbe bene poterli consultare le registrazioni, ma non si trovano più negli archivi delle teche Rai, anche se da qualche parte si potranno forse reperire). Questi cinque libri permettono di capire che cos'è la tecnica vista non da parte dei tecnici, non da parte di persone che stanno esercitando la tecnica, perché l'autoreferenzialità è sempre qualcosa di molto pericoloso, perché forse viene poi male interpretata dai non specialisti che stanno a sentirci. A questo punto, prima di occuparci del primo libro - che è già stato anticipato da Hamid Ziarati, il quale mi ha presentato ed è anch’egli persona di due fronti, la tecnologia da una parte e la letteratura dall'altra (in quanto stimato romanziere che ha pubblicato presso importanti case editrici italiane) - vorrei spiegare che cos'è la tecnica. Arriveremo poi a capire cos'è la tecnica attraverso lo sguardo di persone che non sono dei tecnici e che hanno cercato di raccontarla. Per capire cos'è la tecnica io mi sono portato qua un chopper, una selce scheggiata: questo oggetto ci spiega forse nella maniera più semplice, più immediata e più materiale che cos'è la tecnica. Un oggetto trovato per caso, in quella tecnica dell’azar - come l'ha raccontata Ortega y Gasset - che vede una popolazione nomade fare delle proprie esperienze di ritrovamento, di ritrovamento casuale: come si trova un buon frutto da staccare da una pianta, come si può trovare un animale da cacciare e poi da farne nutrimento, così si può ritrovare un pezzo di legno o una selce che poi verrà ulteriormente modellata e scheggiata per poterla utilizzare per uno scopo diverso. Questa pietra, inizialmente un ciottolo spaccato chissà da quale evento naturale, diventa poi un raschiatoio, un coltello, ed è questa la prima fase di quella lunga evoluzione di cui noi siamo i pronipoti. In questo senso va da sé ricordare quel famosissimo incipit di 2001 Odissea nello Spazio, il famoso film di Stanley Kubrick dove vediamo quella scimmia che comincia a diventare antropomorfa, che scopre un osso e lo fa diventare una clava, e di lì poi nasce tutta la nostra storia.

Adesso, lasciando da parte questo primo oggetto, che rimarrà qui come testimone, è interessante andare a rivedere questo libro, Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau. Un piccolo volume che saggiamente è stato presentato dall'editore Einaudi, nelle sue varie edizioni, sempre con il testo a fronte: da una parte un testo poetico e dall'altra la traduzione a firma di Sergio Solmi (anche se poi molti altri scrittori si sono cimentati a farne alcune parziali traduzioni). Come cosmogonia, come nascita e storia del mondo, avrei potuto riportare tanti altri libri: in primis, per esempio, il De Rerum Natura di Lucrezio, che spiega molto bene quella che è la genesi del mondo, nonché della tecnica; o la stessa Divina Commedia, in quanto cosmogonia medievale. Ritornando a Piccola cosmogonia portatile, andiamo a esaminare soltanto il sesto libro, perché di questi libri forse soltanto il sesto ci interessa più direttamente. I primi tracciano la nascita del mondo naturale, il mondo delle stelle, il mondo degli astri, il mondo dei minerali, dei vulcani, degli oceani. Vediamo invece come comincia il sesto libro: “la scimmia senza sforzo diventò l'uomo, che un po’ più tardi disgregò l'atomo”. Ecco, questa in sintesi è la storia della tecnica, che noi rivediamo in quell'immagine iniziale del film di Kubrick. È quindi proprio per questo che un poeta a noi quasi contemporaneo è importante, perché in quegli anni - il libro è stato scritto appunto negli anni Sessanta - egli trova il modo di anticipare quella grande rivoluzione delle Information and Communication Technologies che poi tutti identifichiamo come la rivoluzione dei computer. Può essere interessante andare a vedere proprio gli ultimi versi di questo libro sesto, che io chiamerei piuttosto “canto sesto”, come giustamente è stato tradotto nella versione italiana: “nel frattempo del calcolo i sauriani” - non si capisce bene chi siano questi sauriani, che sono forse degli esseri microscopici che pullulano all'interno dei computer, magari sono i bit, gli uni e gli zeri che diventano esseri viventi e che pullulano le nostre macchine, ed è questo l'aspetto importante e interessante: non siamo ancora in un mondo di internet, qui non c'è ancora il mondo di internet - “si insinuano poderosi fracassando le tavole logaritmiche, le regole, gli abachi; le loro madri macchine setacciatrici e i padri binari, l'elettronico zio dall’aquilino sguardo ammirano spaventati questi moderni atleti, i quali polverizzano i record stabiliti da quei bipedi che pure san contare, san parlare e curare i sauriani del calcolo; e i bipedi, che pure sanno contare, parlare, curare, curare san del calcolo i sauriani e i bipedi, che pure san contare, parlare, contare, parlare, nonché parlare, contare, contare, contare, contare, contare, curare, contare, curare, contare, parlare, parlare di sauriani, del calcolo, e ancora parlare, parlare.” Ecco, dietro questa immagine poetica c'è tutto il mondo binario, il mondo digitale: diciamolo francamente, qui il termine digitale non c'è, mi piace usare il termine binario proprio perché fa eco, fa rima con quei bipedi che sono i sauriani, e sono questi esserini che stanno navigando e camminando e curando e parlando e contando all'interno delle macchine. Ebbene, la tecnica noi la concepiamo oggi in questa maniera, ma all'inizio c'è una scimmia che trova per caso un osso e trovando quest'osso lo fa diventare un utensile, una prima macchina. Tutto questo è importante; io suggerisco questi libri soprattutto per incuriosire il pubblico. Sono libri abbastanza leggeri da affrontare, non tomi da numerose pagine che richiederebbero un corso propedeutico per entrare nel loro spirito; sono suggestioni, in questo caso le suggestioni di un poeta: in mezzo c'è il telaio, il telaio, che è quella macchina strana che intreccia i fili e che poi a un certo punto un signore francese, all'inizio dell'Ottocento, Jacquard, fa diventare la prima macchina automatica, quella macchina automatica che riesce a sostituire il tessitore con una serie di schede perforate, le quali comandano i licci che sollevano i fili dell'ordito, e permettono di realizzare disegni fantastici; quei disegni che poi Ada Lovelace farà diventare le tessiture del calcolo, inaugurando - lei, prima donna informatica nella storia dell'Ottocento - quella scienza che poi ci ha portato oggi fino a questo punto. Ecco tutto il resto possiamo anche tralasciarlo, perché tutti sappiamo che cos'è un computer, che cos'è una scheda di memoria, che cos'è un telefonino, un touchpad, o tutto il resto. Dietro questi oggetti, ricordiamoci, ci sono sempre - e la fantasia deve lasciare spazio anche alle nostre considerazioni - quei famosi sauriani di cui parla Raymond Queneau.

 

HZ: Il secondo libro che hai scelto è La condizione operaia di Simone Weil, la quale ha vissuto una vita incredibile: una filosofa che dismette gli abiti del professore e va a fare l'operaia per poi finire a combattere nella spagna franchista e morire giovanissima a Londra. Per quale motivo questo libro ci può spiegare che cos'è la tecnica?

 

VM: La scelta di Simone Weil e del suo La condizione operaia - che qui ho nell’edizione degli Oscar Mondadori ma che è stato successivamente ristampato anche da altri editori, l’ultimo dei quali è SE - risale a molto tempo fa. Si tratta, è bene ricordarlo, di un'antologia di scritti, e tra questi vorrei soffermare la mia attenzione - consigliandolo al lettore - sul Diario di fabbrica, che occupa poche pagine, forse un centinaio e non di più. Diario di fabbrica risale agli inizi degli anni Trenta, quando Simone Weil - dopo una prima esperienza di filosofa, di esperta di politica attenta a quel radicalismo di sinistra che l'aveva affascinata negli anni giovanili (lei di famiglia ebraica di un certo tenore sociale, sorella di un grandissimo matematico per il quale aveva avuto sempre grande ammirazione, credendo all'inizio di non poterlo mai raggiungere da un punto di vista intellettuale, cosa che poi i suoi scritti, e la notorietà ottenuta, hanno poi smentito) -, ecco, dopo questa prima esperienza come filosofa, e dopo avere inizialmente insegnato anche in un liceo femminile cercando di spiegare la filosofia a delle allieve che forse non erano così attente alle sue profonde dissertazioni (si narra che anche il preside aveva avuto ha da ridire della complessità delle sue lezioni), proprio perché affascinata da un mondo che lei non conosceva, ma che sapeva essere fondamentale per la sua formazione, cerca di farsi assumere in una fabbrica di meccanica della banlieue parigina. Alcune sue pagine autobiografiche narrano che per farsi assumere pretese di farsi truccare, anche se solo leggermente, da colui che avrebbe dovuto scattarle una foto per il tesserino di ingresso, lei che era sempre stata restia a ogni forma di esibizionismo esteriore, che si era sempre vestita con abiti scuri e modesti. Perché Simone voleva fermamente farsi assumere, voleva entrare nella fabbrica e capire cosa diavolo accadesse all'interno di questo antro che aveva affascinato filosofi ed economisti, e che aveva invece terrorizzato altre persone che vedevano la fabbrica come nuovo motore di una seconda o terza rivoluzione industriale, quella fabbrica del mondo che aveva inaugurato l'oscuro periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, una fabbrica sempre attenta alla corsa agli armamenti, fucina per tanti sociologi dell’alienazione dell’uomo. Simone entra allora in fabbrica e, ovviamente, non avendo nessuna esperienza diretta viene messa al tornio, alla pressa, e le sue esperienze sono terrificanti. Lei, che è molto miope - e infatti la vediamo sempre con dei grossi occhiali tondi, molto spessi -, non riesce neppure a mettere a fuoco gli oggetti che devono essere tranciati da una pressa o a capire come deve essere posizionato l'utensile nel tornio, che deve poi andare a tornire un cilindro. Nonostante tutto, però, in questo suo diario di fabbrica si possono riconoscere degli aspetti importanti di che cos'è la tecnica: una tecnica non del progettista, non dell'artefice, non dell'ingegnere, ma di colui che deve fare le cose, che deve confrontarsi quotidianamente, minuto dopo minuto, con quella grande bestia che è la macchina. Leggiamo un estratto: “Prima settimana, 4 dicembre 1934. Martedì. Tre ore di lavoro nella giornata, di prima mattina. Un’ora di trapano. Sul finire della mattina, un’ora di pressa con Jacquot. Io ho fatto conoscenza con il magazziniere. Sul finire del pomeriggio, tre quarti d'ora a girare una manovella per aiutare a fare certi cartoni. Mercoledì. Bilanciere tutta la mattina, con qualche sosta, fatto senza affrettarmi, quindi senza stanchezza, sotto il tempo”. E qui probabilmente c'era il supervisore del lavoro, quello che noi chiamiamo il controllore dei sistemi di qualità, che andava lì con l'orologio a vedere se le fasi della lavorazione seguivano quanto aveva impostato il progettista. Qui emerge che il vero protagonista dell'industria - come è stato il vero protagonista della rivoluzione industriale - è l'orologio, non è la macchina a vapore, non è il telaio. Perché la macchina a vapore arriva nell'industria inglese ma per tanto tempo continua a esserci la propulsione idraulica, la macchina a vapore arriva poi sulle locomotive ma ci metterà ancora degli anni per essere accettata da tutto il mondo. Ritroveremo poi nel prossimo volume simili considerazioni, molto più storiografiche, raccontate da uno specialista che cerca di andare a capire quali sono i processi evolutivi. Ma ritorniamo sull'orologio: è l'orologio il vero protagonista, perché l'orologio è l'artefice di un tempo “fatto a macchina”, mentre prima della rivoluzione industriale (questo lo avverte direttamente la nostra Simone Weil) il lavoro seguiva le fasi del giorno e della notte, delle stagioni, e si lavorava più d'estate e di meno d'inverno. Con la rivoluzione industriale, con l'avvento delle tecnologie che andranno a illuminare anche il posto di lavoro, ecco che la giornata non è più quella regolata dal sole e dalla luna, ma è quella regolata dall'orologio, dall’orologio che poi noi tutti andiamo a vedere - pensate soltanto ai film di Charlie Chaplin o a Metropolis di Fritz Lang come quella macchina strana che scandisce il tempo e che è impietosa nell'andare a dire cosa si fa e cosa non si fa, e che poi trova il suo idolo nella bollatrice che sta all'ingresso della fabbrica e a cui tutti gli operai devono inchinarsi, andando a porgere il loro obolo, a firmare il proprio ingresso, perché è lei che stabilisce i ritmi di ingresso e ritmi di uscita.

Ecco, questo è importante. Questa è la tecnica: la tecnica non è soltanto la macchina che funziona bene. Andando avanti nel testo, siamo al giovedì di qualche settimana dopo, il 22 di gennaio, “ancora mezz'ora o tre quarti d'ora con la sega, poi Michel me la cambia, insieme con quella della macchina che sta regolando; monto io stessa, ma non riesco a centrarla, disperata ricorro all'operatore con gli occhiali. Finito alle 9, mattinata penosa, le gambe mi fanno male, non ne posso più: quei pezzi, C 4x8, mi esasperano. Col pericolo permanente di spezzare la fresa, la necessità di conservare una totale vacanza mentale”. Qui c'è anche la sua tensione mistica nei confronti della macchina, che a un certo punto le farà abbandonare il posto di lavoro, che poi ha conosciuto nella sua pienezza più totale. “Tre falsi allarmi, alle 11 un movimento, una parola mi avevano distratta: catastrofe, un dente rotto, per fortuna quel che devo fare dopo richiede una fresa 1, 2, Purché più tardi … A mezzogiorno un pezzo che salta allenta la fresa. Riprendo coscienza della necessità di reagire moralmente se non voglio finire col procurarmi una cattiva coscienza, e mi riprendo in pugno”. Adesso se voi vedete, e poi qua magari possiamo anche mostrarlo alla telecamera, nei suoi appunti c'è un disegno di quella fresa che poi si allenta, quindi sono proprio appunti di fabbrica, sono anche appunti di poesia e di meditazione, perché non sono soltanto note tecniche, c'è anche l'umanità dietro alla macchina. Dietro la macchina che è ancora una macchina meccanica, che ancora un qualcosa che costringe l'operaio a servirla: una macchina di cui l'operaio non è il guidatore, il nocchiero, come potrà poi dire qualcun altro in altri contesti, ma è la protesi. Perché, appunto - come dirà poi Gunther Anders ne L'uomo è antiquato, e che aveva già anticipato (con un altro tono ma sempre con lo stesso scopo) René Guénon affermando che con la rivoluzione industriale l'uomo diventa protesi della macchina -, nel mondo artigiano l'utensile, il martello, la sega, la fresa e tutti gli altri attrezzi, anche complessi, sono prolungamenti del braccio e della mente dell'operaio. La rivoluzione industriale cambia i ruoli: la macchina diventa protagonista, e l'operaio, l'operatore, va a eseguire quelle cose che la macchina non è ancora in grado di compiere da sola. Quindi l'operaio deve servire la macchina, così come il coltello, lo scalpello, il martello serviva l'operaio rendendo il suo pugno, la sua mano più efficace e più efficiente. Ecco, in questo senso dobbiamo ricordare che la rivoluzione (faccio un salto indietro, ma di questo ne è perfettamente cosciente Simone Weil) era andata anche verso l'adozione di bambini nel lavoro delle fabbriche (e questo era stato uno dei motivi anche della riprovazione da parte di Karl Marx della rivoluzione industriale): perché i bambini avevano le mani più agili, erano più piccoli, riuscivano a sgattaiolare sotto i telai e riuscivano a compiere molto più velocemente e opportunamente certe operazioni, come per esempio annodare i fili che si rompevano sotto i telai stessi, cosa che un operaio magari con la sciatica non era in grado di fare.

In tutto questo vediamo il processo che ci ha portato oggi a vedere le macchine sempre più autonome e gli operatori sempre più asserviti alle macchine, a compiere quelle operazioni che ancora le macchine non sanno fare da sole. Presto, magari, avremo anche le autovetture a guida autonoma; per adesso abbiamo ancora i piloti - chiamiamoli così - che guidano l'autovettura, anche se cominciano già ad arrivare tutti i sensori per aiutare a rimanere in carreggiata. Ecco, questo libro - e concludo con queste frasi - ci porta alla necessità di capire la tecnica anche dall'interno, e non soltanto dall'esterno, per riconoscere che cos'è stata la rivoluzione della tecnica, e più tardi della tecnologia. In questa sede tra l’altro non andiamo a fare una distinzione tra cos'è la tecnica e cos'è la tecnologia, perché nella lingua anglosassone tutto è technology, nella tradizione francese tutto è technique, mentre in italiano forse rimane ancora - dico forse perché ormai sta scomparendo anche qua - la distinzione secondo cui la tecnica riguarda più il lavoro legato al mondo artigianale o proto-industriale, mentre la tecnologia riguarda la tecnica più avanzata e più automatizzata.

 

HZ: Di Simone Weil mi aveva colpito tantissimo la sua vita. Essendo lei di salute cagionevole, soffrendo da bambina di varie malattie, sua madre l'aveva praticamente fatta diventare fobica riguardo a germi e microbi, e lei rifiutava qualsiasi contatto fisico; provava ribrezzo addirittura nel dare la mano a qualcuno. Il fatto che lei, come filosofa, abbia dismesso i suoi abiti da professoressa del liceo recandosi in una fabbrica per comprendere, per poter parlare filosoficamente della condizione operaia, è una cosa che narrativamente parlando risulta poco credibile, nel senso che il personaggio di un romanzo con le sue stesse caratteristiche difficilmente riuscirebbe a compiere questo passo. Lei invece ci riesce egregiamente, donando all'umanità questo libro capolavoro.

Il prossimo libro è L'evoluzione della tecnologia di George Basalla: un libro incredibile, che parte dall’evoluzione darwiniana asserendo che questa non è applicabile alla tecnologia, poiché la tecnologia fa un percorso suo, cioè non nasce dalla necessità, ma evolve perché ogni uomo apporta qualcosa di nuovo. Come mai la scelta di questo libro, e su quale in particolare vorresti concentrarti per raccontarci che cosa è la tecnica?

 

VM: Le risposte su cos'è la tecnica ci sono - e quasi tutte - all'interno del libro di George Basalla. Essenzialmente all'inizio George Basalla - bisogna ricordarlo - cerca dei legami tra l'evoluzione darwiniana e la tecnologia; questi legami però non si verificano perché in realtà, stando a una mia personale interpretazione, vi sono tre linee di pensiero: c'è del darwinismo, in un certo senso, ma c'è anche della teoria lamarckiana dell'evoluzione, e infine la dimensione dell’intenzionalità della ricerca. La ricerca della tecnica e della tecnologia, l’evoluzione della tecnologia (che poi è una traduzione dall'inglese perché ovviamente il libro nasce in lingua inglese), è quella che ci fa capire come la diversificazione degli oggetti, delle macchine, possa dare origine a tante cose. Pensiamo alle varietà di bastoni che un'immagine qui nel libro ci rappresenta, e che dalla clava iniziale, sempre quella famosa clava che in realtà è un femore di un animale, che è il grande scimmione all'inizio di 2001 Odissea nello Spazio. C'è una bellissima immagine, qui all'interno del libro, che rappresenta la mappa delle lance, delle clave, dei bastoni da lancio: ecco, come vedete qui nel punto centrale di questa immagine c'è un bastone (un semplice bastone, ossia un ramo di un albero, o un osso di un animale), che si evolve da una parte in un martello, da un’altra in una lancia, dall'altra ancora in una clava; e, se si ingrandisce e si appiattisce, si evolve anche in uno scudo. Perché il bastone può diventare non solo arma di offesa, ma anche di difesa, e man mano che si evolve la tecnologia degli oggetti da lancio e delle frecce, questo bastone, da semplice cilindro sottile, può diventare un po’ più largo e un po’ più spesso, a proteggere meglio il malcapitato che si vede lanciare addosso dei corpi contundenti. E può diventare anche quel bastone da lancio, e non soltanto da aggressione, che poi presso certe popolazioni diventa il boomerang. Ecco, la storia del bastone è una storia affascinante, che a me è sempre piaciuta: quando facevo lezioni di storia delle cose raccontavo ai miei allievi tutta un'altra storia, perché questo bastone diventa la mazza dei giochi: pensate alla mazza da golf, alla mazza da baseball, alla mazza del polo, alla mazza dell'hockey, alla mazza del floorball, alla mazza della racchetta del ping pong, della racchetta da tennis, e infine anche alla stecca del biliardo. Ecco, se io incontrassi oggi Basalla gli suggerirei di elaborare una mappa simile (del resto vedo che lui trasse la sua mappa da Evolution of Culture, volume del 1906 pubblicato ad Oxford): sarebbe interessante andare a vedere anche l'evoluzione dei bastoni da gioco oltre che dei bastoni da offesa o da difesa. Si narra anche che vi siano centinaia e centinaia di tipologie diverse di martelli per tutte le varie operazioni, da quello del ciabattino a quello del tappezziere, da quello del falegname a quello del carpentiere, da quello che va a mettere le scandole sui tetti fatti da scaglie di legno, e via dicendo.

Questa è una storia della tecnica, della tecnica artigianale. La cosa poi cambia quando si entra nel mondo della macchina. Non lo dice Basalla, ma a me piace “chiosarlo” con una mia definizione di macchina perché è una definizione che va bene sia nel mondo arcaico sia - potrei dire - del mondo del futuro: la macchina è un artefatto; la macchina non è qualcosa di naturale, deve essere sempre qualcosa in cui entra l'ars ARS, cioè la tecnica, l'arte, quella téchne da cui viene anche il termine italiano “tecnica”. La macchina, dicevamo, è un artefatto che consuma una risorsa (perché se non consuma una risorsa non è una macchina) per modificare lo stato di un sistema. Quell’utensile, quella selce che è rimasta sul tavolo e che prima ho maneggiato, diventa macchina soltanto quando la uso consumando dell'energia della mia mano per fare una certa azione, altrimenti non è una macchina. Una leva che sta ferma sul banco di un meccanico non è una macchina, come non lo è una morsa che è ferma, e che diventa invece macchina quando svolge la sua funzione. A questo punto, questo mondo di macchine incontra nuove forme di energia. All'inizio, già lo sappiamo dal tempo dei romani, la ruota del mulino, che diventerà poi il centro della cultura medievale, viene elevata a macchina centrale da Marc Bloch nella sua storia del medioevo. Ecco, quando arriva il vapore la macchina a vapore va a sostituirsi, e riesce a svolgere funzioni molto più importanti, ad avere una potenza maggiore, svolgendo i lavori che le macchine idrauliche non potevano fare. Nel 1801 c'è poi un signore, Alessandro Volta, che inventa la pila, e allora ecco che avviene forse una vera rivoluzione nell'ambito degli scienziati e dei tecnologi: siamo finalmente riusciti a creare artificialmente l'elettricità, che tutti gli altri, prima, a partire da Beccaria ma anche da Beniamino Franklin, non erano riusciti a imbrigliare nella natura, perché la natura conosce l'elettricità e i fulmini, ma nessuno era mai riuscito ad “acchiappare” l'energia del fulmine come invece avevano fatto con l’idraulica. Una volta inventata la pila si pensa dunque di costruire un motore a elettricità, e questo lo spiega benissimo Basalla - e forse mi fermerei su questo punto per narrare uno degli elementi chiave di questa evoluzione -, gli scienziati e gli ingegneri cominciano a capire che, dal momento che la macchina a vapore è fatta da due pistoni che vanno avanti indietro e sono spinti dal vapore e poi alternativamente fanno muovere un sistema biella-manovella che con l'aiuto di un volano fa girare gli alberi, possono sostituire i due pistoni mossi dal vapore con due elettrocalamite che attirano due armature metalliche, vanno avanti e indietro e fanno funzionare una macchina alternativa, elettrica. Questa è la grande aspirazione che dura, pensate, più di cinquant'anni, a partire dal 1801, anche a Torino con il professor Botta, ma vi sono numerosi esempi di scienziati che costruiscono dei motorini con elementi che tirano avanti e indietro muovendo dei bilancieri, sperando di inventare il moto elettrico. Ecco, non ci riescono: sarà poi Pacinotti con la sua macchinetta elettrica, ma soprattutto il nostro Galileo Ferraris, a costruire il campo magnetico rotante. Perché? Perché c'era uno sbaglio: l'elettricità non poteva essere sfruttata da un sistema che non fosse accoppiabile con la sua natura di “on-off”. In questa sede è inutile entrare in particolari troppo tecnologici. Sarà un altro modello, molto più antico, che è quello della ruota idraulica con il campo rotante dell'acqua, a diventare il modello concettuale della macchina elettrica a campo magnetico rotante, che poi è quella che conosciamo tutti, nei nostri motori elettrici. Questo per far capire come in realtà le storie certe volte imboccano una strada che è senza uscita; di strade senza uscita ce ne sono tantissime altre, mentre altre ancora sono fortunatissime.

Chiudo con l'ultima riflessione suggerita dal Basalla, quella sull'invenzione - purtroppo tragica, diciamolo pure, anche se all’inizio non lo è - del filo spinato. Fino a quando nel midwest gli allevamenti di bestiame sono abbastanza contenuti, si riescono a usare i tralci di maclura, un arbusto che produce dei tralci spinosi per creare le recinzioni. Quando però questi appezzamenti, questi luoghi dove vengono conservati e trattenuti gli animali al pascolo, diventano troppo ampi e non si riesce più a circondarli con i tralci di maclura, allora ecco che nascono - e negli Stati uniti si registra un'esplosione di queste invenzioni - i barbed wires, fili spinati, dei fili “con la barba”, che diventano quindi il modo per ampliare gli allevamenti di bestiame nel midwest americano. Gli inventori certamente non pensavano che invece i fili spinati sarebbero poi diventati un tragico strumento di morte durante la prima guerra mondiale.

 

HZ: L'esempio del motore elettrico mi ha ricordato l'interdisciplinarità tra due settori, tra elettronica e campi magnetici: una volta che si è scoperto lo stretto legame tra queste due discipline, si è riusciti a costruire i primi motori rotativi, grazie anche a Volta che ci ha permesso di rendere l'energia trasportabile.

Come quarto libro hai scelto Dio & Golem s.p.a. di Norbert Wiener, il padre della cibernetica. Lui è una figura di riferimento sia per il mondo della letteratura che della fisica, perché a lui sono ispirati tantissimi libri sulla fantascienza: il fatto di aver coniugato la cibernetica - magari non per primo - lo ha impresso nella mente di tutti quelli che si occupano di fisica e si appassionano di tecnologia o di robot. Come mai questo libro può darci una risposta, visto che tratta di teologia e di tecnologia, messe a confronto?

 

VM: Questo è un libro particolare, in quanto affronta i temi metafisici che sono stimolati dalla tecnica. Perché la tecnica non viene soltanto trattata nella stanza degli ingegneri, bensì coinvolge tutto il nostro mondo: dalla società alla vita comune familiare, ma anche alla nostra vita spirituale e metafisica. Questo già l'abbiamo visto con l'esperienza di Simone Weil e anche, tra le righe, della stessa cosmogonia di Raymond Queneau, che descrive l’origine di un mondo che noi disconosciamo.

Partirei a questo punto da una definizione di cibernetica che è proprio di Norbert Wiener, anche se non in questo libro: “la cibernetica è la scienza del controllo e della comunicazione” - facciamo attenzione a questi due termini - “nell'animale e nella macchina”. Non c'è soltanto il controllo: lui aveva fatto il suo successo come ingegnere con i sistemi di puntamento automatici nelle artiglierie della seconda guerra mondiale; è un ingegnere applicato all'industria bellica, aveva cominciato a sviluppare la teoria dei controlli, dei sistemi di regolazione, dei sistemi a feedback e via dicendo. E vede nella cibernetica non soltanto la dimensione del controllo della macchina, ma anche quella della comunicazione. Tra controllo e comunicazione c'è anche quella terza parola magica - che esula dall’ingegneria, dalla tecnica, ma ne è direttamente collegata - che è la coscienza, l'autocoscienza. Per cui a un certo punto lui dice “così come si narra che Dio abbia creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, così l'uomo crea la macchina a sua immagine e somiglianza”, e questa frase ovviamente apre un tema teologico, e non soltanto un tema ingegneristico. Si sviluppa allora un sillogismo che nasce tra le righe di questo libro - che è stato pubblicato pochi mesi prima della sua morte, nel 1964, quindi l'autore non ha potuto seguire tutto il dibattito che è venuto a seguito di questo suo scritto -, sillogismo che diventa fondamentale per dimostrare che la tecnica può voler dire anche qualcos'altro, può chiedersi se queste macchine che noi costruiamo a nostra immagine possano avere la stessa coscienza che si sviluppa nel rapporto che noi abbiamo con la divinità. Ecco questi sono quesiti, sono domande importanti, che non dobbiamo dimenticare assolutamente. E poi qui dentro c'è un altro concetto importante, ossia il riferimento al controllo: non soltanto comunichiamo, ma abbiamo anche la sensazione di quello che accade. Ricordiamoci che lui parla negli anni in cui c'erano soltanto dei giocattoli meccanici che al massimo giravano sul pavimento, come noi vediamo girare l'aspirapolvere, tanto per dare un'idea. La tartaruga e gli altri animali meccanici che Von Neumann e tanti altri avevano messo in essere nei laboratori del MIT e di altre scuole di ingegneria erano giocattoli che, messi sul pavimento, quando trovavano un ostacolo ritornavano indietro; nel caso più eccezionale si trattava di un topolino che, messo all'interno di un semplicissimo labirinto, riusciva a trovare prima o poi la strada. In realtà poi in questo volume nasce il dilemma su che cosa sia la creatività: qui dentro è spiegato molto bene, vi è creatività fin quando in un gioco - come possono essere la dama o gli scacchi - io non ho trovato l'algoritmo della soluzione ottimale. Al suo tempo c'erano già delle macchine che riuscivano a capire perfettamente qual era la strategia vincente nella dama: non c'era più gusto a giocare con una macchina del genere, se già sapevamo per assunto che questa macchina avrebbe vinto. Negli scacchi, dice Norbert Wiener, la macchina non è ancora in grado di sapere quale sia la strategia vincente, ogni volta ci si deve adeguare alle fantasie del giocatore, e di conseguenza il giocatore può essere più libero di confondere la macchina, la quale perde un po’ la trebisonda e a un certo punto non riesce più ad andare avanti.

Questi sono aspetti importanti, poiché coinvolgono anche gli oggetti che appartengono alla macchina, vista anche come macchina che - e questo è il secondo aspetto fondamentale, profondamente filosofico - non trasferisce, non cambia soltanto lo stato meccanico di un sistema (prendendo la mia definizione), ma anche l'informazione di un sistema, per cui è famosissima la frase “che cos'è una gallina: la gallina è la macchina che permette a un nuovo di fare un altro uovo”. Vedete, in questa frase, che è una frase che stupisce, c'è già un’anticipazione: pensate, siamo negli anni Sessanta, quindi tutta la scoperta dell'ingegneria genetica è ancora di là da venire; siamo soltanto ai primi momenti in cui si pensa che cos'è il DNA, che cosa sono i cromosomi, ma andare a fare una mappa genetica non è ancora possibile; ecco, Wiener a un certo punto intuisce che, dato che una macchina trasferisce informazioni, forse riusciremo a fare delle galline meccaniche (questo lo dico io, lui lo fa intendere), e riusciremo a costruire delle macchine che, conoscendo l'informazione in origine, come black box, riescono a trasferirla come informazione in uscita. Sono cose che non dice apertamente ma lascia perfettamente intendere; non lo nomina perché aveva paura a dirlo, ma intende il teletrasporto, perché se noi riusciamo ad avere tutta l'informazione che sta in un essere vivente qua, lo possiamo trasferire da un'altra parte, trasferendo completamente la sua innovazione, la sua invenzione. In questo senso il titolo God & Golem Incorporated include la sigla tipica dell'industria americana che giustamente gli autori in italiano hanno tradotto S.p.A., società per azioni, rivelando che in realtà questa unione tra la divinità e il Golem - che è quel famoso automa costruito da Rabbi Loew, quel rabbino-scienziato-ingegnere che aveva costruito questa macchina automatica fatta di fango che obbediva al suo volere nella Praga di Rodolfo (siamo nel Cinquecento) - ecco, in questo senso ci fa meditare, perché la tecnica, in questo libro, non è più soltanto quell'insieme di macchine che sconvolgono Simone Weil, ma è qualcosa di leggermente diverso, e si rifà a quel mondo ancora tutto sognato, che però qui sembra reale o ancora di là da venire, ma molto più problematico rispetto a quello “da baraccone” descritto da Queneau - e non sappiamo se Wiener lo avesse letto.

Io alla fine dei libri vedo tante cose, però credo che in questo volume in particolare vi sia di tutto, perché si parla di teletrasporto ma anche di Čapek, del famoso autore del R.U.R., Rossom Universal Robots, una commedia che parla degli automi che vengono a sostituire gli umani nelle fabbriche, per cui è importante capire che dentro la tecnica c’è il futuro, ma c'è anche la possibilità di andare a capire che cosa il futuro ci può prospettare. C'è un'altra affermazione che m'è piaciuta molto, e siamo alla fine di questo saggio (anche in questo caso ci sono in appendice alcuni articoli a complemento di questo Golem Incorporated che è lungo soltanto un’ottantina di pagine, un articolo un po’ lungo, nulla di più): si analizza il problema di sapere se noi possiamo prevedere il futuro, perché la previsione del futuro, l'onniscienza che noi andiamo a incontrare ogni giorno con i paradossi del web e di internet, ci mette di fronte al sapere tutto e quindi al sapere niente. Dunque, possiamo avere l'illusione o la certezza che, conoscendo perfettamente tutte le cause, come diceva Simon de Laplace, possiamo conoscere il comportamento di una moneta lanciata in aria. Oppure questa è una pura velleità? Io qui chiuderei con questo riferimento, che aveva sconvolto Vilfredo Pareto, il quale guarda caso si laurea in questo Politecnico di Torino, e dopo un'esperienza industriale trasferisce la sua conoscenza dell’analisi matematica e fonda l'econometria applicando le equazioni differenziali all'economia, nell'illusione di poter prevedere il futuro di un sistema economico. Tutti sappiamo che la vicenda di Vilfredo Pareto cambia ancora direzione, la strada diverge ulteriormente, e dopo la sua esperienza di economista abbandona l’econometria perché capisce che i modelli matematici non sono in grado di prevedere il futuro, e sposa la sociologia, lo studio della società degli uomini e delle donne con i loro comportamenti perché sono forse il modo migliore per capire come va il mondo.

 

HZ: Di Wiener mi ha colpito in particolar modo il fatto che lui, oltre a essere uno dei padri della cibernetica, è anche il padre del controllo a retroazione che poi ha ispirato uno degli slogan pubblicitari più famosi di quasi un decennio fa che recita “la potenza non è nulla senza il controllo”.

Passiamo adesso al prossimo libro di Max Frisch, un romanzo finalmente, un romanzo dal titolo Homo faber, che già esprime tutto.

 

VM: Del resto Faber è il cognome del protagonista, perché Faber è un cognome molto comune, in Svizzera più ancora che in Germania. Ecco, Homo faber è il romanzo di un ingegnere, scritto da un architetto che però aveva frequentato una scuola politecnica, quindi si era formato in architettura come si sono formati moltissimi architetti in questo Politecnico, e non presso una scuola d'arte o una scuola di belle arti, dove l'architettura era lontana dall’applicazione pratica, dalla macchina, ma in un politecnico come il Politecnico di Zurigo, dove centrale era l'ingegneria, ancorché molto attenta alle discipline che le stavano a fianco, dalla letteratura all'architettura, all'arte. Dopo la sua esperienza di architetto, abbandona l'architettura e scrive romanzi, ne scrive parecchi, tra cui questo mi ha particolarmente affascinato, perché nella sua prima parte narra le vicende di questo ingegnere - e qui non faccio lo spoiler perché non sarebbe giusto, anche perché c'è un esito che lascio poi al lettore – questo ingegnere che, separatosi dalla moglie, deve andare a seguire l'installazione di alcune turbine nel Centro America, però vive un piccolo disastro aereo, aereo che è costretto ad atterrare in mezzo al deserto del nord del Messico; dopo alcuni giorni riesce a essere salvato, però fa la conoscenza con un altro individuo che lo convince ad addentrarsi in Centro America, alla ricerca di quello che poi lui scopre essere un suo conoscente. In questa vicenda emerge la natura di questo ingegnere degli anni Cinquanta, installatore di turbine, quindi un ingegnere meccanico, progettista, la cui visione deterministica del mondo può servire a risolvere dei problemi. Non vi è dunque in lui soltanto lo stupore, ma anche il calcolo delle probabilità, la cibernetica: si pone dei problemi su come poteva essere controllato l’aereo, fa numerose considerazioni sulla tecnica, sulle macchine, sulla meccanica, ma parla anche di quei risvolti che la tecnologia sta affrontando sempre più spesso nel campo delle telecomunicazioni, che diventano fondamentali per lo sviluppo. C'è anche, poi, il problema della probabilità: l'ingegnere sa che la statistica risolve i problemi, per cui a un certo punto l'affidabilità di una macchina è fondata su calcoli statistici, e quindi, se succede qualcosa, proprio a meno di essere sfortunati, al massimo si può ben sperare in un successo di una certa azione; è questo il modo con cui tutti gli ingegneri procedono, essendo quasi - dico quasi - sicuri che il loro progetto, tranne casi eccezionali, non dovrà fallire. Quando poi, a un certo punto, in questa sua avventura alla ricerca di questo personaggio sconosciuto che poi riconosce essere il marito della sua prima moglie, ecco che lui si chiede che cosa sia il determinismo dell'ingegnere di fronte ai casi della vita. Per cui la figura dell'ingegnere, del tecnico, di colui che ha fatto della tecnica la sua professione, e oserei dire la sua fede, emerge come colui che è sicuro che, essendo già caduto una volta con l'aereo in avaria, un secondo disastro aereo non lo potrà mai toccare, e quindi pensa che tutto sia prevedibile. Nella prima parte di questo libro, e poi nella seconda, si succedono cose che fanno capire che anche gli ingegneri sono degli esseri umani, che anche i tecnici devono scontrarsi con l'imprevedibilità dei casi umani, e l'imprevedibilità dei casi umani li riporta, oserei dire, coi piedi per terra, dove i logaritmi, i calcolatori, la previsione statistica di un certo evento, forse non contano più nulla.

Ancora una volta, questo è il motivo per cui mi sono sempre permesso di legare la figura di questo ingegnere con quella di Simone Weil: non è il fallimento della tecnica, ma la necessità che la tecnica non dimentichi che esiste anche un mondo che non è governabile dalla tecnica. E quindi, se possiamo giungere a una sorta di morale in questa scelta di libri, possiamo dire che la tecnica è quella che ha permesso all'uomo - quando da nomade è diventato stanziale - di superare le grandi crisi delle risorse naturali, consentendo la nascita della pastorizia e dell'agricoltura, che ha permesso all'umanità di sopravvivere, nonostante tutto, fino a quando la popolazione è aumentata così tanto che ha avuto la necessità di cambiare i metodi di produzione, perché sennò l'Inghilterra in primis sarebbe collassata sulla sua iperproduzione, sulla sua sovrappopolazione, perché altrimenti si sarebbero dovuti applicare dei metodi non naturali. Gli stessi Malthus e i grandi demografi dell'Ottocento preconizzavano delle regolazioni della popolazione di fronte alla scarsezza delle risorse umane, che poi per fortuna i progressi della tecnica, della medicina, e di tutte le attività legate al creare artefatti ci ha permesso di procedere, di andare avanti, con tutti gli alti e bassi della società.

Oggi probabilmente ci troviamo di fronte a nuovi dilemmi, che ci portano a confrontarci con una popolazione mondiale che cresce sempre di più, con le risorse che sono sempre finite. Con la sfiducia totale: certamente non verranno a salvarci le migrazioni verso i satelliti, Marte o altri pianeti del nostro sistema. Non si può pensare che cento umani che vadano in un'altra colonia fuori dalla Terra possano salvare questo mondo, a meno che non si inventi qualche altra soluzione, qualche altro artefatto, magari di difficile assunzione da parte della civiltà. Inevitabilmente la nostra specie dovrà fare i conti con sé stessa, e i conti con sé stessa, fino ad ora, li ha sempre risolti una soluzione tecnica, legata spesso al mondo antico, che qui ritorna, tanto che questo libro si concluderà guarda caso proprio in Grecia, la culla degli oracoli che, a cominciare dalla Pizia, avevano cercato di dare agli uomini le soluzioni per affrontare questi grandi dilemmi dell'umanità. Tutto questo è nascosto dentro questo libro, che secondo me è da leggere e rileggere, perché nella prima parte voi vedete le vicende di un semplice ingegnere, poi questo ingegnere - e qui accenno proprio per far venire la volontà di andare a leggere come va a finire - finisce prima a New York e poi sulla nave di ritorno verso l'Europa, dove incontra una ragazza di cui si innamora. Lascio al lettore di vedere come la storia va a finire in maniera profondamente meditativa sul destino della tecnica, sul destino dell'ingegneria.

 

HZ: È un'evoluzione incredibile: il personaggio iniziale, alla fine del libro, cambia totalmente.

 

VM: Cambia totalmente perché anche l'ingegnere deve sapere che i problemi dell'ingegneria non si risolvono con l'ingegneria.

 

HZ: Dopo aver visto un poeta, un filosofo, uno storico, un fisico-teologo e uno scrittore-architetto, vogliamo parlare del sesto libro che è la tua ultima fatica? Dall'arte allo zero...piccolo dizionario filosofico dell'ingegneria: perché un ingegnere dovrebbe leggere il piccolo dizionario filosofico dell'ingegneria?

VM: Allora, a questo punto sarò brevissimo perché non voglio prevaricare con la mia presenza questa già lunga presentazione, che per molti versi è autobiografica, così come lo era stata la prima presentazione dei miei cinque libri nel 2006. In questo caso, però, si tratta di libri che oggi fanno parte anche della mia Bildung, della mia formazione, perché per un ingegnere come me che a un certo punto capisce che deve aprire anche il mondo politecnico a quello che sta al di fuori della cultura politecnica, certamente questi volumi sono forse il presupposto di questo libro. Un libro che è stato un tentativo di andare a vedere come i paradigmi rappresentati da ventuno coppie di termini e parole, che provengono il più delle volte dal mondo dell’ingegneria, diventano modi di pensare anche nella vita comune di tutti e nella stessa filosofia: perché, ricordiamoci, la filosofia non è soltanto quella che fanno i grandi filosofi, che occupano le cattedre, ma la filosofia - e in questo senso ci aiuta a vivere - cerca non dico di dare le soluzioni ai nostri problemi, ma di metterci di fronte ai problemi per averne una maggiore consapevolezza. Quella consapevolezza che rimaneva di fronte a tutti questi libri, quella consapevolezza che voleva Simone Weil nell'affrontare la vita di fabbrica (ma anche le altre vite: lei aveva anche affrontato la Guerra di Spagna da cui era uscita delusa), perché aveva capito che in fondo le esperienze della vita sono sempre articolate, diverse.

Ecco, in questo senso questo libro permette di andare a vedere come termini come la vita e la morte, ma anche il caso e la causa, non sono soltanto termini da ingegneria ma anche termini della filosofia, e viceversa. Perché anche nell'ingegneria si può parlare di vita e di morte, anche nella vita comune si può parlare di resilienza. Ecco queste sono alcune delle parole che io lascio alla lettura del curioso lettore che spero possa andare a cercare qualcosa di nuovo in queste pagine.

 

HZ: Benissimo, ringraziamo il Professor Vittorio Marchis e i suoi cinque libri per comprendere che cos'è la tecnica secondo la cultura politecnica. Vi invito a vedere i prossimi appuntamenti con gli altri eminenti professori che presenteranno i loro cinque libri. Grazie e buona giornata.